Capisco di non poterne fare a meno. Non riesco a smettere di contare.
Sono passate sette ore e quarantadue minuti dall'ultima volta che ho sorriso, mancano due ore e cinquantatre minuti a quando riaprirò una porta. Ho due chiavi qui, accanto a me. Ho tre bollicine sulla mano sinistra. Una tazzina. Mille dubbi.
Devono trascorrere ancora sessantasei giorni prima che arrivi Luglio.
Luglio mi piace. C'è il sole. Ci sono i lamponi, il melone e i mirtilli. Ci sono le margherite. Il grano appena tagliato. C'è l'aria così limpida da far girare la testa, così leggera da non sostenerti più. Ci puoi passare attraverso in un istante perchè a Luglio tutto quanto è più veloce.
"Ti senti bene?", mi dice.
"Tu, tu come ti sentiresti?"
"Non ti interessa parlare di me."
"No."
Fisso la parete davanti e ne seguo il contorno bianco lucido, arrivo fino al poster di Magritte, poi ancora oltre, fino all'orologio a muro; conto le lancette, tre, conto i numeri, dodici, conto i secondi prima che lei parli di nuovo.
"E che cosa farai?"
"Diventerò famoso, mi siederò sul mondo, e tutti sapranno chi sono."
"Ora vieni qui."
Quando mi siedo sento il suo corpo da adulta accanto al mio e mi sembro un bambino. Sento la sciarpa scivolarle sul collo e solleticarmi una mano. Sento il sangue pulsarle nel braccio. Sento tutti gli anni in più. Quaranta. Sento le pantofole che tanto mi ricordano casa.
"Partirò presto, lo sai, mamma?"
"Non pensi mai che potresti conquistarla qui, la fama?"
Sto zitto per un secolo, e il silenzio che facciamo è quello di un film dopo un bacio appassionato, è quello del dito del professore sull'elenco prima di un'interrogazione. Poi il cane della vicina vuole uscire e comincia ad abbaiare.
"Sono già famoso, qui."
"Perchè?"
"Perchè so che c'è qualcuno che non mi dimenticherà mai."
Mi viene voglia di raccontare di più, di parlarle di te e di quei tuoi capelli biondi. Ho ancora il tuo odore sulle mani ed è come se piovesse, e vorrei dirle tutto questo. Invece guardo fuori dalla finestra e vedo un aereo che vola lontano. Allora penso che a Luglio anche gli aerei precipitano più velocemente.
Io adoro cadere nel vuoto, perchè mi fa sentire eterno. Sai, ti amo proprio per questo. Perchè mi fai sentire eterno.
26 aprile 2008
23 aprile 2008
I gesti eleganti
Scura di pelle come il legno, come il legno dura e forte. La Negra aveva addosso intelligenza e troppa stima per se stessa. Scacciò quella mattina un altro uomo dal suo letto, sotto l’acqua lavò via l’odore stinto di quel sesso, si vestì con molta cura. Entrò in classe che era tardi, come sempre. La Nana era già lì, col suo sorriso e un posto vuoto accanto a lei.
“Per domani voglio avere da voi due una Storia pronta”, disse in aula il Gran Maestro, indicando prima l’una e poi quell’altra. “Altrimenti andate via, e non mettete mai più piede in questa scuola”.
La Nana era bruttissima, sbadata e perspicace. I capelli erano rossi e sempre sporchi, non toccava carne umana da chissà che tempi andati. Stava in casa con sua madre, e sognava. Come tutti, sperava di permettersi una vita grazie alla parola scritta.
“Non sarò mai in grado di scrivere nulla per domani”, disse fuori alla sua amica nera in volto, e in quei frangenti pure dentro.
“Non è vero, proveremo e sono certa che faremo un gran lavoro”, obiettò la Negra.
“Ho paura”, sussultò quindi la Nana, con lo sguardo verso i piedi ed un tremore tutto addosso.
“Prima o poi sarebbe successo”.
Poi la Negra entrò da sola dentro l’aula diciassette, prese un pacco di fogliacci e iniziò a scrivere. Pensava, tra sé e sé, che sarebbe stata brava; voleva sostenere anche l’amica, e così scrisse per due. Storie distinte e favolose, dal linguaggio colto e senza abbellimenti, frasi corte e musicali. Scrisse bene e scrisse in fretta, quella Negra, e in gran segreto scrisse il doppio, anche per l’altra. Dopo un’ora già finì, sorrise a lungo e uscì un momento a riposare.
Nel frattempo la Nana disperata camminava senza sosta in cerca di un’illuminazione. Piangeva, vagando per la scuola, senza idee da buttar giù in opera scritta. Dopo un po’ concluse infine riflettendo a bassa voce: “Non saremo mai capaci, io e la Negra, di ottenere quel lavoro che ci ha chiesto. Ho un’idea: lo ruberò a qualcuno senza dar nell’occhio. Ne prenderò uno per me e uno per lei”.
Trovò nell’aula diciassette due quaderni abbandonati; esultò leggendo, dentro, due racconti appena scritti. Così li prese in mano e stava uscendo, se non fosse che di scatto entrò la Negra che la vide e le urlò contro.
“Cosa fai, mi rubi quello che ho sudato in questo tempo?”
“Ma che dici, non sapevo fossi tu ad averli scritti!”
“Beh sei stronza e mentecatta. E pensare che ne ho pure scritti due, uno per te e uno per me.”
“Ed io due ne ho rubati, uno per te e uno per me.”
“Puttana!”
“Troia!”
Se non fosse che passava in quel momento il Gran Maestro il quale, attirato dal trambusto, entrò subito nell’aula diciassette. “Che succede, questo chiasso non sta bene”, disse piano e senza perdere la calma. La Negra prese allora la parola e gli rispose: “Non è niente. Commentavo ciò che ha scritto la mia amica. Trovo che nel suo racconto vi sia qualche punto oscuro, ma non sono io che devo giudicarlo, ecco a lei.” E strappò tutt’e due i quaderni dalle mani della Nana per passarli al Gran Maestro. Nel frattempo la sua bassa e brutta amica non fiatò, con gli occhi al suolo ed un pallore singolare addosso al viso. L’aria densa e calcolata si scaldò per un momento.
“Grazie, Negra”, disse l’altra appena l’uomo se ne andò.
“Se non avessi scritto io, sarei qui dentro solo grazie al tuo rubare. Sono io che dovrei ringraziare te”.
“Di cosa parla il mio racconto?”, chiese la Nana sorridendo.
“Parla di noi”.
“Dimmi ancora”.
Silenzio tra le due per qualche istante. Poi la Negra rise e disse.
“Parla di quello che, tra tutti quanti i gesti, è certamente il più elegante”.
“Per domani voglio avere da voi due una Storia pronta”, disse in aula il Gran Maestro, indicando prima l’una e poi quell’altra. “Altrimenti andate via, e non mettete mai più piede in questa scuola”.
La Nana era bruttissima, sbadata e perspicace. I capelli erano rossi e sempre sporchi, non toccava carne umana da chissà che tempi andati. Stava in casa con sua madre, e sognava. Come tutti, sperava di permettersi una vita grazie alla parola scritta.
“Non sarò mai in grado di scrivere nulla per domani”, disse fuori alla sua amica nera in volto, e in quei frangenti pure dentro.
“Non è vero, proveremo e sono certa che faremo un gran lavoro”, obiettò la Negra.
“Ho paura”, sussultò quindi la Nana, con lo sguardo verso i piedi ed un tremore tutto addosso.
“Prima o poi sarebbe successo”.
Poi la Negra entrò da sola dentro l’aula diciassette, prese un pacco di fogliacci e iniziò a scrivere. Pensava, tra sé e sé, che sarebbe stata brava; voleva sostenere anche l’amica, e così scrisse per due. Storie distinte e favolose, dal linguaggio colto e senza abbellimenti, frasi corte e musicali. Scrisse bene e scrisse in fretta, quella Negra, e in gran segreto scrisse il doppio, anche per l’altra. Dopo un’ora già finì, sorrise a lungo e uscì un momento a riposare.
Nel frattempo la Nana disperata camminava senza sosta in cerca di un’illuminazione. Piangeva, vagando per la scuola, senza idee da buttar giù in opera scritta. Dopo un po’ concluse infine riflettendo a bassa voce: “Non saremo mai capaci, io e la Negra, di ottenere quel lavoro che ci ha chiesto. Ho un’idea: lo ruberò a qualcuno senza dar nell’occhio. Ne prenderò uno per me e uno per lei”.
Trovò nell’aula diciassette due quaderni abbandonati; esultò leggendo, dentro, due racconti appena scritti. Così li prese in mano e stava uscendo, se non fosse che di scatto entrò la Negra che la vide e le urlò contro.
“Cosa fai, mi rubi quello che ho sudato in questo tempo?”
“Ma che dici, non sapevo fossi tu ad averli scritti!”
“Beh sei stronza e mentecatta. E pensare che ne ho pure scritti due, uno per te e uno per me.”
“Ed io due ne ho rubati, uno per te e uno per me.”
“Puttana!”
“Troia!”
Se non fosse che passava in quel momento il Gran Maestro il quale, attirato dal trambusto, entrò subito nell’aula diciassette. “Che succede, questo chiasso non sta bene”, disse piano e senza perdere la calma. La Negra prese allora la parola e gli rispose: “Non è niente. Commentavo ciò che ha scritto la mia amica. Trovo che nel suo racconto vi sia qualche punto oscuro, ma non sono io che devo giudicarlo, ecco a lei.” E strappò tutt’e due i quaderni dalle mani della Nana per passarli al Gran Maestro. Nel frattempo la sua bassa e brutta amica non fiatò, con gli occhi al suolo ed un pallore singolare addosso al viso. L’aria densa e calcolata si scaldò per un momento.
“Grazie, Negra”, disse l’altra appena l’uomo se ne andò.
“Se non avessi scritto io, sarei qui dentro solo grazie al tuo rubare. Sono io che dovrei ringraziare te”.
“Di cosa parla il mio racconto?”, chiese la Nana sorridendo.
“Parla di noi”.
“Dimmi ancora”.
Silenzio tra le due per qualche istante. Poi la Negra rise e disse.
“Parla di quello che, tra tutti quanti i gesti, è certamente il più elegante”.
22 aprile 2008
Cioccolato
Non ti voglio più vedere ed io ti odio. Mi dici. Ma alla fine ci troviamo su di un letto a far l’amore. Bevi il tuo bicchiere d’acqua, mi ripeti: “non è aria”. Non è aria per far cosa?, penso io. Tutto quello che c’è intorno è solo aria, e mi sta bene. Ribadisci: “partirò”. E pure io, rifletto quindi. Siamo in barca e navighiamo, e non è la stessa barca. Spunta un piede dalla tua e mi piace tutto. Pure il piede. Pure quello. Non lo dico ad alta voce, non sia mai che, a realizzare l’imminenza del lasciarsi, prenda vita quell’angoscia che sappiamo sotterrare tanto bene. Poi in un impeto di rabbia mi fai male con il braccio sulla spalla. Con quel tuo zainetto rosso sembra tutto sanguinare, ma io so che non è odio, è soltanto la paura, la paura. Con quel tuo zainetto rosso scappi e torni in un baleno. Ebbene sì, già so che soffriremo come matti al manicomio. Come mucche al mattatoio. Come quaglie impallinate. Fa lo stesso. Non importa. Mi sta bene, come l’aria di cui sopra. Mangio un Kinder cioccolato, quel sapore un po’ dolciastro è uguale a te.
21 aprile 2008
Mister Plastic
Provai con una di quelle chatline telefoniche per vecchi depressi e soli, pensai che avrebbe potuto aiutarmi. Così sfogliai un quotidiano gratuito e scelsi la pubblicità con la ragazza più tettona di tutte. Si chiamava “La stanza di Lucy”. In una nota scritta in caratteri nanometrici venivano descritti i prezzi del servizio offerto. Tra tasse, scatti alla risposta e concessioni governative ministeriali avrei certamente risparmiato a chiamare una sconosciuta in Burkina Faso.
“Pronto chi parla?”, mi rispose una voce calda e sensuale.
“Ciao.”
“Ciao bello. Da dove chiami?”
“Da casa.”
“Dal tuo lettone caldo?”
“No. Sono le cinque del pomeriggio, non sono a letto.”
“Io sono tutta eccitata.”
“E perché mai? Stai parlando con uno sconosciuto al telefono.”
“Sei un bel maschione, vuoi cavalcarmi tutta?”
“Sono molto triste…”
“Io ti renderò felice.”
“No!”
“…”
“Ma non ti rendi conto di quanto è triste tutto questo? Porca puttana.”
“…Niente offese, però...”
“Non ti chiami Lucy vero? Come ti chiami?”
“Preferirei non dirlo. E modera i toni, bello.”
“Allora ti chiamerò Lucy. Ascolta Lucy, leggevi i fumetti da piccola?”
“…”
“Sì, li leggevi. Ricordi per caso quel personaggio che andava vestito di rosso ed era fatto di gomma, poteva allungarsi quanto voleva e salvava il mondo?”
“…Mister Plastic?”, disse con una voce flebile e quasi impercettibile.
“Bravissima! Ecco, ricordi cosa succedeva a Mister Plastic quando accadeva qualcosa di brutto alla sua famiglia o ai suoi cari?”
“…”
“Non lo ricordi. Mister Plastic salvava sempre il mondo. Però quando accadeva qualche disgrazia ai suoi cari lui si scioglieva, come la gomma sotto a una fiamma. E finché la sua famiglia non stava di nuovo bene non riprendeva forma.”
“…”
“I suoi amici lo sapevano ovviamente, perciò quando lo vedevano in quello stato invece di dare una mano a lui correvano a salvare i suoi cari.”
“Perché mi stai raccontando tutto questo?”
“Lucy io ho fatto delle cose orribili alle persone a me più care. Ed ora mi sono sciolto, come Mister Plastic, e non riesco più a fare niente per rimediare.”
“…”
“Dimmi qualcosa, almeno tu.”
“Sai. La vita ti sorride.”
“A me non pare.”
“Eppure la vita ti sorride, bello. Solo che la guardi da troppo lontano: e ti sembra una smorfia.”
Lucy scalò la classifica delle dieci persone più inaspettatamente intelligenti che abbia mai conosciuto. Superò anche il panettiere di mia nonna. Non era roba facile. Quel tizio aveva risolto un sudoku in novantatre secondi netti.
“Pronto chi parla?”, mi rispose una voce calda e sensuale.
“Ciao.”
“Ciao bello. Da dove chiami?”
“Da casa.”
“Dal tuo lettone caldo?”
“No. Sono le cinque del pomeriggio, non sono a letto.”
“Io sono tutta eccitata.”
“E perché mai? Stai parlando con uno sconosciuto al telefono.”
“Sei un bel maschione, vuoi cavalcarmi tutta?”
“Sono molto triste…”
“Io ti renderò felice.”
“No!”
“…”
“Ma non ti rendi conto di quanto è triste tutto questo? Porca puttana.”
“…Niente offese, però...”
“Non ti chiami Lucy vero? Come ti chiami?”
“Preferirei non dirlo. E modera i toni, bello.”
“Allora ti chiamerò Lucy. Ascolta Lucy, leggevi i fumetti da piccola?”
“…”
“Sì, li leggevi. Ricordi per caso quel personaggio che andava vestito di rosso ed era fatto di gomma, poteva allungarsi quanto voleva e salvava il mondo?”
“…Mister Plastic?”, disse con una voce flebile e quasi impercettibile.
“Bravissima! Ecco, ricordi cosa succedeva a Mister Plastic quando accadeva qualcosa di brutto alla sua famiglia o ai suoi cari?”
“…”
“Non lo ricordi. Mister Plastic salvava sempre il mondo. Però quando accadeva qualche disgrazia ai suoi cari lui si scioglieva, come la gomma sotto a una fiamma. E finché la sua famiglia non stava di nuovo bene non riprendeva forma.”
“…”
“I suoi amici lo sapevano ovviamente, perciò quando lo vedevano in quello stato invece di dare una mano a lui correvano a salvare i suoi cari.”
“Perché mi stai raccontando tutto questo?”
“Lucy io ho fatto delle cose orribili alle persone a me più care. Ed ora mi sono sciolto, come Mister Plastic, e non riesco più a fare niente per rimediare.”
“…”
“Dimmi qualcosa, almeno tu.”
“Sai. La vita ti sorride.”
“A me non pare.”
“Eppure la vita ti sorride, bello. Solo che la guardi da troppo lontano: e ti sembra una smorfia.”
Lucy scalò la classifica delle dieci persone più inaspettatamente intelligenti che abbia mai conosciuto. Superò anche il panettiere di mia nonna. Non era roba facile. Quel tizio aveva risolto un sudoku in novantatre secondi netti.
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