14 giugno 2008

Ritorno

Nell’atrio dell’auditorium non c’è più nessuno, l’ordine, la pulizia e il silenzio permeano ogni cosa. Arrivo trafelato e mi guardo intorno nervosamente cercando l’ingresso in sala. Apro una porta, è il bagno, ne provo un’altra, è chiusa a chiave. Una signora in tailleur compare all’improvviso da una tenda rosso scuro e mi guarda preoccupata indicando di seguirla. È molto tardi, mi dice con gli occhi.
La sala è davvero grande. La platea è una lunga distesa di poltroncine rivestite di stoffa, ed è praticamente piena. Faccio appena in tempo ad individuare la carrozzina di Toph prima che si spengano le prime luci. È posizionata nel corridoio. Dalla poltrona immediatamente vicina spuntano i capelli e il foulard di mia madre.
Trovo un posto libero accanto a un signore anziano con un bastone di legno intarsiato appoggiato tra le gambe. Lo sento borbottare qualcosa a proposito del fatto che non si dovrebbe arrivare così tardi ai concerti. Sto per rispondergli a tono e ho già in mente qualche complimento ironico riguardo l’estetica del suo bastone da passeggio, ma vengo interrotto da qualcuno nelle prime file che inizia ad applaudire. Sta entrando l’orchestra.
Dietro di me c’è una coppia di signori con l’aria distinta. Il marito è un signore sulla settantina con i capelli bianchi, lucidi e tirati all’indietro. Indossa degli occhiali con la montatura dorata. La moglie ha almeno dieci anni in meno, i capelli ricci e tinti di rosso, un sorriso radioso. Ha in mano un programma, me lo faccio prestare. Suonano Shostakovich.
Le luci si spengono del tutto e un faro illumina Beth mentre si dirige verso il suo pianoforte. Ha un vestito semplice, chiaro, forse un po’ troppo corto. Si avvicina al pianoforte guardando la sala, senza fermare lo sguardo realmente su nessuno. È debole, lungo il cammino. Ma io so che appena si siederà diventerà forte.
Mio padre era un appassionato di musica classica. La sera ci portava spesso a sentirla in giro per la città. Lui diceva sempre che il momento più bello di un concerto è appena prima che inizi la musica. Diceva che c’è un istante in cui i muri delle sale da concerto spariscono, e il vento che c’è fuori riesce a entrare. Non si sa come mai ma succede sempre: le luci si spengono, i musicisti tendono i muscoli, l’attesa è estenuante, eppure il viso si rinfresca un momento con quel vento immaginario. Arriva al momento giusto, per pulire la testa dai cattivi pensieri, diceva. Mio padre diceva anche che era quel vento ad avergli fatto venire il mal di gola, che avrebbe dovuto mettersi un foulard come la mamma. Mi piace pensare che sia vero, che la storia del tumore alla lingua fosse solo un’invenzione. Mi piace pensare che sia morto di musica.
Le prime note arrivano dritte in testa, come un’ubriacatura da superalcolico. Conosco questo concerto, l’ho ascoltato troppe volte. Beth ha le mani sulle gambe mentre l’orchestra suona la sua introduzione. Aspetta il suo turno, dagli occhi le fluisce quella sua straordinaria capacità di ascoltare, quell’assurda attenzione per le piccole cose.
Mi lascio affannare da un nuovo tipo di sogno.
Il peso delle dita si sente tutto appena iniziano a muovere i tasti, la musica compie uno scatto discreto e repentino così brutale da provocarmi un grido soffocato. Il vecchio col bastone mi brucia con lo sguardo, non gli do importanza.
Il busto di Beth si muove con movimenti imprecisi e incoerenti, un momento sfiora la tastiera e il momento dopo si allontana come a sentirla bruciare. I suoni si inseguono lenti nell’adagio, ricordano le prime luci fredde dell’alba, i fazzoletti bianchi in un porto di mare, le volute di una sigaretta nel piccolo studio di uno scrittore. Come vorrei essere in grado di vedere tutto questo davvero, così da conservarlo per sempre in fondo agli occhi. Come vorrei essere privo di consapevolezze, non sapere niente, come un viaggiatore venuto da una terra in cui ci sia sempre silenzio e che per la prima volta venga spinto, qui ed ora, nella musica. Come vorrei precipitare fuori dalla mia inquietudine.
Mi agito sulla poltrona durante l’allegro, qui dentro fa più caldo del previsto. Passo la mano sulla pelle ad allontanare il maglione dal collo, soffio nella maglietta. Le note si arrampicano, adesso, e sembrano continuare a salire senza fermarsi mai. L’orchestra sposta il suo peso rincorrendo il pianoforte e ingrossando il rumore, e proprio quando la pienezza sembra ormai conseguenza necessaria e imprescindibile le luci si accendono e la musica è sostituita dal boato di un applauso potentissimo. Un’esplosione. Il concerto è finito.
Boom.
Perfino da qui riesco a notare il petto di Beth che si muove rapidamente per la fatica, il viso è coperto da qualche capello ribellatosi nel mentre dell’esecuzione. Rimane immobile qualche secondo prima di alzarsi dallo sgabello, passarsi una mano sulla testa, sorridere avvicinandosi al bordo del palcoscenico.
Si inchina qualche volta davanti al pubblico che applaude, ed è proprio come quando aveva dieci anni, scomposta e disorientata di fronte ai grandi numeri. Esce e rientra sul palco quattro volte, l’applauso è lunghissimo. La signora dai capelli rossi dietro di me urla: brava.
Dopo che si riaccendono le luci aspetto venti minuti rimanendo seduto nella mia poltrona, osservo il flusso di persone che entrano ed escono dal camerino per salutare lei o qualche componente dell’orchestra, riconosco alcuni volti ma non mi avvicino a salutare. Mamma e Toph mi fanno un cenno da lontano e vanno via. Sono rimasto l’unico nella sala quando, finalmente, attraverso la tenda rossa che mi separa da lei. C’è un piccolo corridoio buio e alcune porte. La terza sulla destra è semiaperta. Sento un profumo. Il suo.
Beth è appoggiata a una sedia di legno, sta tentando di togliersi uno stivale col tacco con dei movimenti scoordinati. Non mi vede entrare e rimango un po’ a fissarla mentre è in quella posizione strana, illuminata soltanto da un lampadario sporco e vecchio.
“Posso chiederti una cosa?”, dico.
Nel suo corpo vedo scorrere un brivido di sorpresa, mi ha riconosciuto dalla voce e non si aspettava fossi qui. Rimane a fissarsi lo stivale continuando a tirarlo via, senza alzare lo sguardo verso di me. Finalmente riesce a toglierlo e fa un sospiro di sollievo.
“Questi affari mi hanno dato fastidio per tutto il concerto, cristo santo.” Solo allora alza gli occhi e mi sorride. “Certo, chiedi pure.”
Mi avvicino fino a sentirne l’odore. È sudata. Odora di vita.
“Chi ti ha allacciato il vestito, sulla schiena?”
Beth si toglie i capelli dalla fronte, li raggruppa tutti con le mani e li lega con un elastico viola. Poi passa le dita due o tre volte sul vestito, all’altezza delle spalle, prima a destra e poi a sinistra, come a pulirlo da qualche sporcizia residua.
“La stessa persona di cui sei innamorato tu”, dice. “Quella per cui non mi parli da un mese, quella per cui è cambiato tutto quanto.”
Mi guarda tranquilla come se mi avesse appena rivelato il menù della sua colazione. Io le rispondo fissandola, allibito e sconvolto.
“Di chi parli scusami?”
Allora lei si gira lentamente su se stessa, si ferma un istante a mostrarmi la schiena. Il vestito le scorre teso fino ai fianchi. Non ci sono allacciature. Non ci sono bottoni. Si volta nuovamente verso di me.
“Parlo di qualcuno che non esiste, idiota.”
E poi spalanca gli occhi.
"Boom", sussurro.