21 giugno 2008

Baffi

Toph non dice una parola, è pensieroso. Scrive il suo nome sul finestrino appannato della macchina. Lo fa tenendo il pugno della mano stretto e muovendo tutto il braccio, di netto. Viene fuori una scritta tutta storta e tremolante. La P sembra una D e non c’è abbastanza spazio per la H. Ripenso a qualche mese fa, quando i suoi nervi erano malati a partire dalla spalla e non riusciva a muovere nemmeno le braccia. Sta migliorando ma voglio di più. Voglio le mani.
Voglio le dita.
“Aspetti qui?”, chiedo. “Ci metto un secondo.”
Annuisce, mugugna qualcosa. Mi chiedo se sia sicuro lasciare un tetraplegico da solo in macchina. Corro con le mani intrecciate sopra la testa, in un inutile tentativo di non bagnarmi troppo sotto alla pioggia che cade ancora, leggera ma inesorabile. Guardo indietro, Toph mi segue con gli occhi attraverso il vetro. Ad ogni passo lascio orme di fango dietro a me.
Il tipo del vivaio ha i baffi tagliati sottili e la mosca sopra al mento. In testa indossa un cappello di lana nero e un paio di scalda orecchie bianchi. È seduto a una scrivania a leggere il giornale. È ridicolo.
“Salve”, lo saluto, rimango con le mani in tasca. Fa un freddo cane. Il tipo continua a leggere e rimane in silenzio.
La stanza è piena di piante, do un’occhiata in giro. Ci sono gigli, ortensie e tulipani, ci sono dei grandi vasi con i limoni, ci sono orchidee di tutti i colori, composizioni di rose, gerbere e giacinti viola. Ci sono bouquet di margherite gialle e bianche, ci sono dei cesti di vimini pieni di ciclamini, mazzi di fiori secchi e spighe dorate, ci sono centrotavola con candele profumate, ci sono gardenie, camelie, ma soprattutto ci sono infinità di stelle di natale. Rosse, fredde e vive, sembrano tagliare la luce di netto.
“Sa che i veri fiori sono quelli gialli, all’interno”, dice il tipo. Finalmente alza gli occhi dalla pagina di giornale, indica le stelle di natale con un dito. “Le parti rosse sono soltanto normalissime foglie. ”
Mi avvicino ad una stella particolarmente grande, allungo la mano per toccarla.
“Fermo!”, mi urla all’improvviso. Mi blocco, ritraggo la mano. “Sono delicatissime. Soffrono il freddo, non vede come sanguinano?”
Quest’uomo è completamente pazzo.
“Mi scusi non lo sapevo”, sussurro spaventato.
Il tizio si accorge della mia espressione perplessa, scuote la testa con fare scocciato, chiude il giornale e si alza in piedi.
“Come posso aiutarla?”, chiede con tono secco e formale. Si toglie gli scalda orecchie e li posa sulla scrivania.
“Vede, mia madre ha deciso stamattina di volere a tutti i costi un albero di natale, e lei possiede l’unico vivaio aperto di tutta la città.”
Il tipo mi guarda per farmi capire che quell’introduzione è del tutto inutile e che ha passato la mattinata ad aiutare ritardatari come me.
“Sono rimasti soltanto quei due”, indica un angolo buio della stanza. Ci sono due alberi piccoli e piuttosto malmessi in un angolo. “Di meglio, oggi, non può pretendere.”
Mi avvicino ai due alberi. Sembrano identici, sono entrambi poco più alti di Toph, con la cima un po’ storta e non troppi rami disposti in modo asimmetrico tutto intorno.
“Quello sulla destra è transgenico”, dice il tipo, accenna un sorriso.
Rimango zitto con sguardo interrogativo.
“Non punge. Può accarezzarlo come fosse un cocker e non sentirà nessun dolore.” Fa un cenno con la testa. “Provi pure se vuole.”
Non ci credo.
Provo, passo la mano lungo un ramo e la lascio scorrere come sulla peluria di un peluche, sento un po' di solletico, niente di più.
“Incredibile”, sussurro a voce bassa.
“Vero?”, il tipo ora sorride mostrando i denti ingialliti, si sistema il cappello di lana. “Robe del genere andrebbero inventate più spesso.”
Mentre penso a una risposta da dare guardo indietro, verso la porta, seguo le mie orme fino a fuori. Sono rassicuranti.
"Vorrei l'altro", dico. "Quello che punge."
Lentamente stanno uccidendo tutti i nostri sogni.

15 giugno 2008

Radiosveglia

Dalla mia stanza si vede una ragazza al telefono, nella finestra di fronte. Piove e l’immagine di lei mi arriva filtrata, indistinta, quasi consapevole di aver attraversato un miliardo di cose prima di approdare fino a me.
La ragazza sta mangiando dei biscotti. Indossa un pigiama verde con delle stelle di vari colori disegnate sopra. Parla ininterrottamente, anche mentre mastica, e gesticola in modo brusco e sgraziato. A un certo punto mi vede, si ricompone i capelli e mi lancia un’occhiata di rimprovero. Mi squadra ancora mentre chiude la persiana.
Se guardo giù, in basso, riesco a vedere fin dove la strada curva circondando il giardinetto pubblico. In giro non c’è praticamente nessuno. Passa un signore con un ombrello e un cane al guinzaglio. Indossa un lungo cappotto in stile militare. Tenta di accendere una sigaretta ma non riesce a tenere contemporaneamente il manico dell’ombrello e l’accendino. Finisce per bagnarsi completamente, rinuncia a fumare.
Apro la finestra, un soffio di vento freddissimo mi gela il viso svegliandomi del tutto. Mi sporgo un po’ fino a sentire le gocce di pioggia arrivarmi sulla nuca, rimango qualche secondo fermo così. Davanti al portone di casa è parcheggiata la mia macchina, attraverso il vetro bagnato riconosco il mio porta-cd, la mappa stradale, un pacchetto di gomme posato sul sedile. La mia macchina mi piace da morire. Mi piace perché è minuscola, è così piccola da permettermi di infilarmi anche nelle stradine più buie per raggiungere qualsiasi posto. Mi piace perché ha il portapacchi, e perché quel portapacchi non l’ha mai usato nessuno. Mi piace perché ha un bozzo nella portiera a sinistra e mi ricorda un anno fa, quando ero ancora innamorato e goffo e sbadato, e mi fa ridere, trovo assurdo che a ricordarmi quell’amore ormai stinto sia un bozzo in una portiera. Poi la mia macchina mi piace perché è sottile, e quando sono fermo ai semafori ad ascoltare una canzone la musica passa attraverso le portiere e finisce nelle automobili degli altri, spesso riesco ad osservarli mentre muovono la testa al ritmo di ciò che sto ascoltando. Infine mi piace perché è l’unica cosa che senta per davvero mia, nel mondo. È triste quando penso che sia una macchina e non un essere umano. Ma almeno le macchine, quando ti fanno del male, rimangono in silenzio.
Ho la testa completamente bagnata, torno dentro e chiudo la finestra. Mi passo la mano nei capelli e la porto davanti al naso. Odora di pioggia e terra e aria ed è un profumo che mi fa diventare matto.
Abbasso la persiana e rimango al buio, appoggiato al muro, le mani infilate nelle tasche del pigiama. La radiosveglia segna le 08.33. Nella penombra noto un sacco di cose. La porta della camera non è chiusa bene. La luce che filtra sotto al pavimento illumina le mie scarpe rovesciate. Se muovo una mano abbastanza veloce davanti agli occhi riesco a farla sparire, rimane soltanto il braccio. C’è una macchia sopra alla finestra, sembra un elefante.
Una volta ho letto in qualche libro che gli uomini sono fatti per lo più di acqua, il resto è soltanto un’inezia. Non mi dispiace pensare di essere fatto della stessa roba di cui è fatto il mare, secondo me spiega un sacco di cose. Spiega perché ci lasciamo trascinare dalla corrente senza riuscire a frenare. Spiega perché, a volte, facciamo più male di un uragano. Spiega perché la nostra vita sembra derivare da minuscoli microrganismi che ci trascinano ognuno verso un posto diverso, incapaci di comunicare tra loro. E poi l’oceano non è il posto più adatto per una coscienza superiore. Neanche l’uomo.
Accendo la radio rimanendo al buio. Il notiziario è già iniziato da un po’. Un politico di sinistra è stato ucciso a coltellate davanti casa da un gruppo di uomini ancora non identificati. Un ragazzo di ventidue anni è morto nella notte, investito da un pirata della strada. Invenzione del giorno: il dosso virtuale contro l’alta velocità. Consigli per mangiare bene durante le feste. Partita di calcio di beneficenza.
La porta della camera si apre all’improvviso inondandomi di luce. Stringo gli occhi. La silhouette di mia madre appare lentamente nella nebbia della mia vista ancora poco abituata. Mamma non dice niente per un po’, poi fa un passo verso di me.
“Ma allora sei sveglio”, esclama. “Mi sembrava di aver sentito dei rumori.”
Annuisco. Finalmente riesco a vederle la faccia.
“Tutto ok?”, mi guarda in modo strano.
“Ok.”
È in abbigliamento casalingo con delle orribili pantofole pelose rosa. Le gocciola qualcosa dalle mani.
“Vieni a fare colazione?”, chiede.
“Ora arrivo, stavo finendo di sentire una cosa”. Indico la radiosveglia con un cenno della testa.
“Certo, scusami.”
Mamma accende la luce in camera mia, poi esce. Torna dopo pochi minuti con una ciotola piena di frutta secca. Me la passa e sorride.
“Hai sentito del ragazzino morto stanotte?”, chiedo. Voglio portare un briciolo di normalità a questa conversazione.
Lei sorride sempre di più, inizia a scuotere la testa. Fa finta di non ascoltarmi. Unisce le mani davanti al petto intrecciando le dita, le agita in alto e in basso in segno di sconforto. Poi all’improvviso mi prende la testa e mi da un bacio sulla guancia.
“Auguri, amore mio”, dice.
La guardo perplesso e poi capisco.
È natale.