Voglio le mani di qualcuno a stringermi forte la testa. Voglio stupirmi della sua dolcezza. Voglio un secolo di tranquillità, quiete e pace nel mondo. Voglio isole di felicità in questo mare di vita. Voglio un tizio basso e grasso che mi faccia ridere con le sue battute fulminanti. Voglio disturbare un adulto intento a fare il suo lavoro. Voglio guarire il pianeta dal riscaldamento globale. Voglio leggere Gente di Dublino. Ma soprattutto voglio accendere la luce in questo istante senza dover sopportare ancora la paura quotidiana di trovarmi addomesticato come un cane.
Rimango immobile nel buio.
La casa è nel silenzio più totale. Me la immagino, stesa nel suo letto di terra e cemento, come un vecchio a cui sia scoppiato un improvviso mal di testa. Me la immagino torva e squadrata, a massaggiarsi piano la fronte di finestre e laterizi. Accendo la luce.
Accanto al letto, posato sul comodino, tengo un piccolo caleidoscopio di cartone. È un regalo di mio padre. Lui era un appassionato di questi piccoli oggettini che si trovano negli shop dei musei della scienza, la casa ne è piena. C’è la matita che si regge sospesa in aria con i magneti, c’è il termometro di Galileo, ci sono due prismi che scompongono lo spettro solare e c’è una meridiana di legno. C’è anche un radiometro, una specie di palla di vetro con una piccola elica colorata all’interno che si mette a girare quando è esposta alla luce.
Il caleidoscopio però è soltanto mio. Mio padre lo aveva portato tornando da uno dei suoi viaggi di lavoro, era impacchettato in una scatolina rossa con un fiocchetto lucido blu. “Questo è per te”, aveva detto, con il suo solito sorriso freddo e distaccato. Io avevo scartato il pacchetto pieno di emozione, ma quando avevo visto all’interno soltanto quel tubicino di cartone colorato ero rimasto perplesso, un po’ deluso. Lo avevo girato tra le mani tentando invano di carpirne il funzionamento. Allora mio padre mi aveva preso in disparte e mi aveva sussurrato all’orecchio: “È un caleidoscopio, ed è per te. Sai cosa vuol dire caleidoscopio? Viene dal greco e vuol dire: oggetto che ti permette di vedere le cose belle. Quando sei triste guarda attraverso questa lente. Scoprirai che anche le cose che ti sembrano brutte in realtà nascondono un cuore eccezionale.” Poi Topher aveva iniziato a piangere, di quel pianto continuo e intenso che i neonati usano per attirare l’attenzione. Ed io ero rimasto solo, con un fiocchetto blu tra le dita, a pensare a quello strano regalo.
Rimango qualche secondo steso sul letto ad osservare quelle infinite forme simmetriche e colorate, poi sento il cane della vicina abbaiare. Come ogni pomeriggio. Accendo la tv, cambio canale e al terzo tentativo trovo L’attimo fuggente. E risuona il mio barbarico YAWP sopra i tetti del mondo.
Pochi istanti dopo sto dormendo di nuovo.
16 maggio 2008
13 maggio 2008
Money
C’è un ragno morto sotto al mio letto. Ha le zampe tutte raggrinzite ed è pieno di polvere. Tento di prenderlo infilandoci sotto un foglio di carta ma è più difficile di quanto sembri, il cadavere continua a scivolare e finisce proprio sul bordo della parete. Alla fine lo sollevo con le dita stando attento a non toccarlo troppo. Lo tiro fuori dalla finestra.
“Potresti abbassare un pochino?”, urlo.
Attraverso il muro sento della musica altissima provenire dal salone. Sono i Pink Floyd. Money.
Nessuna risposta. Apro la porta e mi sporgo con la testa.
“Mamma!”, urlo ancora. “Potresti abbassare la musica?”
Niente.
Inquadro la mia camera spaziosa e piena di cose, la doppia finestra in alluminio, le tende azzurre a strisce blu, il letto con la trapunta verde avvoltolata sul materasso, il calendario minimale regalatomi in una copisteria che mostra questi tristi giorni di settembre, l’armadio vecchio e con le ante un po’ storte, i poster attaccati sul muro e, ulteriore segno di una superficialità congenita nei riguardi dell’ordine, i libri accatastati in malo modo sulla scrivania.
Sapientemente incastonata nell’ambiente, al centro di tutto questo, c’è mia madre.
“Mi hai detto qualcosa?”, chiede.
Si siede sul letto e mi fa segno di avvicinarmi. Dritta sulla schiena ha un portamento e una sicurezza eccezionali, sembra circondata da un’invisibile scorta di guardie del corpo.
“Non ti ho sentita entrare, mi hai spaventato.”
“Sto sentendo un po’ di musica”, dice, accennando un sorriso.
“Me ne sono accorto, ti stavo appunto urlando di abbassare il volume, c’è un casino.”
Non la guardo dritta negli occhi, guardo soltanto la sua ombra che cade per terra e finisce proprio appena prima della porta.
“Vieni da Toph con me?”, chiede.
Seguo l’ipnotico andare e venire del led sul telefonino. Aspetto che si spenga per la terza volta prima di risponderle.
“No, ora no, preferisco rimanere a casa.”
Prende tempo anche lei. Siamo giocatori di scacchi e ogni mossa può essere fatale.
“Sai, quando io e tuo padre ci siamo conosciuti non avrei mai pensato che avremmo davvero costruito una famiglia”, dice mentre mi accarezza una gamba. Dolce, bella e delicata mamma. “Ero giovane, e mi sembrava che fosse tutto troppo difficile, troppo grande per me.”
“Papà mi aveva raccontato che per concedergli il numero di telefono hai impiegato mesi”, la interrompo io.
Ridiamo insieme, ma abbiamo nei nostri volti così simili e così diversi la stessa tristezza. Per un momento mi sento di nuovo quel bambino che trovava tra le sue braccia tutta la sicurezza di cui aveva bisogno.
“Questo non è vero!”, urla scherzando. Poi torna seria all’improvviso. “Ad ogni modo come vedi mi sbagliavo. È venuta fuori una famiglia niente male, no?”
“Mi fai il solletico”, le dico allontanando la sua mano dalla gamba. Penso a me, a lei, a Toph in ospedale. Penso a mio padre e a quanto mi manca. Penso al potere della nostra famiglia, nascosto in un’insana capacità di imparare dai propri incidenti per andare avanti ancora più veloci di prima. Niente male, sì.
Niente male.
Mia madre si alza in piedi, va verso la porta e la apre. La musica irrompe di nuovo con tutta la sua potenza nella stanza. Ancora Pink Floyd. Time.
Poi sembra ripensarci, richiude di nuovo la porta e si volta verso di me.
“Non voglio sapere cosa ti sta succedendo in questi giorni amore mio”, mi sussurra. E la sua voce è così potente da arrivare nitida alle mie orecchie nonostante il delirio oltre il muro.
“Se mi capitasse qualcosa te lo direi, lo sai benissimo”, le rispondo.
“Non me lo diresti”, dice. “Sono tua madre, non una cogliona.” Sorrido un istante pensando alla rarità con cui fa uso di un linguaggio simile. L’ultima volta che l’avevo sentita imprecare era stato contro un tassista a cui lei stessa aveva tagliato la strada. Mi rendo conto di quanto tutto questo renda quell’affermazione terribilmente vera. Guardo a terra.
“Qualsiasi cosa sia, ricorda che sei mio figlio”, dice. “Non pensare di non essere all’altezza.”
Mentre sta uscendo la musica irrompe di nuovo nella stanza.
The time is gone, the song is over, thought I’d something more to say.
“Potresti abbassare un pochino?”, urlo.
Attraverso il muro sento della musica altissima provenire dal salone. Sono i Pink Floyd. Money.
Nessuna risposta. Apro la porta e mi sporgo con la testa.
“Mamma!”, urlo ancora. “Potresti abbassare la musica?”
Niente.
Inquadro la mia camera spaziosa e piena di cose, la doppia finestra in alluminio, le tende azzurre a strisce blu, il letto con la trapunta verde avvoltolata sul materasso, il calendario minimale regalatomi in una copisteria che mostra questi tristi giorni di settembre, l’armadio vecchio e con le ante un po’ storte, i poster attaccati sul muro e, ulteriore segno di una superficialità congenita nei riguardi dell’ordine, i libri accatastati in malo modo sulla scrivania.
Sapientemente incastonata nell’ambiente, al centro di tutto questo, c’è mia madre.
“Mi hai detto qualcosa?”, chiede.
Si siede sul letto e mi fa segno di avvicinarmi. Dritta sulla schiena ha un portamento e una sicurezza eccezionali, sembra circondata da un’invisibile scorta di guardie del corpo.
“Non ti ho sentita entrare, mi hai spaventato.”
“Sto sentendo un po’ di musica”, dice, accennando un sorriso.
“Me ne sono accorto, ti stavo appunto urlando di abbassare il volume, c’è un casino.”
Non la guardo dritta negli occhi, guardo soltanto la sua ombra che cade per terra e finisce proprio appena prima della porta.
“Vieni da Toph con me?”, chiede.
Seguo l’ipnotico andare e venire del led sul telefonino. Aspetto che si spenga per la terza volta prima di risponderle.
“No, ora no, preferisco rimanere a casa.”
Prende tempo anche lei. Siamo giocatori di scacchi e ogni mossa può essere fatale.
“Sai, quando io e tuo padre ci siamo conosciuti non avrei mai pensato che avremmo davvero costruito una famiglia”, dice mentre mi accarezza una gamba. Dolce, bella e delicata mamma. “Ero giovane, e mi sembrava che fosse tutto troppo difficile, troppo grande per me.”
“Papà mi aveva raccontato che per concedergli il numero di telefono hai impiegato mesi”, la interrompo io.
Ridiamo insieme, ma abbiamo nei nostri volti così simili e così diversi la stessa tristezza. Per un momento mi sento di nuovo quel bambino che trovava tra le sue braccia tutta la sicurezza di cui aveva bisogno.
“Questo non è vero!”, urla scherzando. Poi torna seria all’improvviso. “Ad ogni modo come vedi mi sbagliavo. È venuta fuori una famiglia niente male, no?”
“Mi fai il solletico”, le dico allontanando la sua mano dalla gamba. Penso a me, a lei, a Toph in ospedale. Penso a mio padre e a quanto mi manca. Penso al potere della nostra famiglia, nascosto in un’insana capacità di imparare dai propri incidenti per andare avanti ancora più veloci di prima. Niente male, sì.
Niente male.
Mia madre si alza in piedi, va verso la porta e la apre. La musica irrompe di nuovo con tutta la sua potenza nella stanza. Ancora Pink Floyd. Time.
Poi sembra ripensarci, richiude di nuovo la porta e si volta verso di me.
“Non voglio sapere cosa ti sta succedendo in questi giorni amore mio”, mi sussurra. E la sua voce è così potente da arrivare nitida alle mie orecchie nonostante il delirio oltre il muro.
“Se mi capitasse qualcosa te lo direi, lo sai benissimo”, le rispondo.
“Non me lo diresti”, dice. “Sono tua madre, non una cogliona.” Sorrido un istante pensando alla rarità con cui fa uso di un linguaggio simile. L’ultima volta che l’avevo sentita imprecare era stato contro un tassista a cui lei stessa aveva tagliato la strada. Mi rendo conto di quanto tutto questo renda quell’affermazione terribilmente vera. Guardo a terra.
“Qualsiasi cosa sia, ricorda che sei mio figlio”, dice. “Non pensare di non essere all’altezza.”
Mentre sta uscendo la musica irrompe di nuovo nella stanza.
The time is gone, the song is over, thought I’d something more to say.
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