“Ascolta”, dice Beth. “C’è un tipo che ama alla follia una tipa. Questa qui è il genere di ragazza mostruosamente bella, occhi chiari, capelli lunghi e mossi, fianchi sottili, curve definite.”
Stiamo passeggiando per le vie del centro fianco a fianco, ma io oggi non ho affatto voglia di parlare. Ho soltanto voglia di fumare. Ci fermiamo davanti a un bar, protetti da una veranda rossa che pubblicizza la Coca Cola. Mi appoggio al muro e sospiro forte, infreddolito e affaticato.
“Uno schianto”, dico.
“Uno schianto.” Beth strofina le mani tra loro, stringe le braccia sul petto. “Il tipo invece non è niente di che, lavora in un bar come cameriere ed ha anche un piccolo difetto di pronuncia, per cui ogni tanto inizia a balbettare e si perde per strada alcune parole in mezzo alle frasi.”
Guardo il bianco umido che cade dal cielo oltre la veranda, sotto forma di fiocchi piccoli, freddi, ghiacciati.
Sta nevicando.
“Non capisco Beth”, dico. “È una barzelletta?”
Un camion passa lungo la strada, lascia dietro di sé due tracce nere nel grigio chiaro che ricopre l’asfalto. Beth fissa l’aria e la neve, il suo sguardo è così intenso da far tremare le vetrine. Tremo anch’io.
“I due si conoscono perché la tipa va ogni mattina a fare colazione nel bar dove lavora il tipo, e lui si innamora di lei nell’esatto istante in cui la vede per la prima volta.”
“Colpo di fulmine?”
“Sì.”
Allungo una mano oltre la veranda e lascio che alcuni fiocchi mi tocchino il palmo. Li osservo da vicino, mentre si sciolgono bagnandomi le dita, trasformandosi in goccioline sottili e trasparenti. “Non ti seguo”, dico. Scuoto le dita per schizzarle la faccia.
“Il tipo ovviamente non fa altro che pensare alla tipa mostruosamente bella, ogni sera torna a casa dal bar e aspetta che arrivi la mattina dopo per poterla vedere di nuovo.” Beth si asciuga il viso e scuote la testa. “Solo che non trova il coraggio per rivelarle quello che prova, e per un po’ di mesi rimane così, in silenzio, a prepararle il caffellatte senza mai dirle una sola parola.”
“È una barzelletta.”
“Poi una sera decide di fare il grande passo e dichiarare il suo amore. Si prepara davanti allo specchio, ripete quella frase mille volte, cercando la sfumatura adatta, pesando ogni parola, sono mesi che non penso ad altro che a te, ti voglio soltanto dire che ti amo da morire, e basta”, Beth intona la voce dandole un’impostazione autoritaria, decisa, esclusiva. “Il cameriere sa bene che non può sbagliare.”
La neve cade sempre più fitta, confinandoci in quello spazio minuscolo. Mi muovo fino a raggiungere la parete invisibile che separa l’aria sgombra dal ghiaccio.
“Così il mattino dopo il tipo si spruzza il profumo, si sistema i capelli e arriva al lavoro mezzora prima”, continua. “Sussulta ad ogni cliente che entra nel bar, ogni volta abbassa lo sguardo deluso che non sia il suo amore. E poi, finalmente la vede entrare, mostruosamente bella, con il suo portamento eccezionale.” Beth mima la scena con le mani. “La tipa ordina il solito caffellatte, lo beve tutto in un sorso, si mette la borsa sulle spalle e sta proprio per andare via quando il tipo le posa una mano sul fianco e la fissa negli occhi. Lei ovviamente non capisce e rimane così, un po’ spaventata, senza sapere cosa fare. Vorrebbe dire qualcosa, vorrebbe chiedere se è tutto a posto, ma non fa in tempo a parlare perché sente il cameriere sussultare.” Beth si ferma in una pausa molto teatrale. Guarda il cielo. “La ragazza sente il tipo esclamare ad alta voce: sono mesi che ti voglio da morire, e basta.”
Scoppio a ridere. “Alla faccia del perdersi qualche parola”, esclamo.
Beth mi azzittisce con gli occhi e con un dito vicino al naso. Smetto subito. Non devo ridere. Non è una barzelletta.
“Come pensi che abbia reagito la ragazza?”, mi chiede Beth. È la domanda più importante del mondo.
Allungo ancora la mano oltre la veranda per raccogliere un po’ di neve. Questa volta mi fermo a lungo. Dopo qualche istante mi accorgo che in realtà il ghiaccio è molto meno freddo di quanto sembri. Aspetto finché la mano diventa completamente bianca. Poi parlo.
“Lo bacia”, dico.
Beth si gira di scatto. Mi guarda, si illumina di un sorriso che non vedevo da tanto tempo.
Annuisce. “Lo ama.”
Ritiro il braccio, passo la neve tra un palmo e l’altro a formare una palla compatta e precisa. Soppeso quel mucchio di neve con la mano. Ho una voglia pazza di una sigaretta.
“Torno subito”, le dico ad occhi bassi.
Muovo qualche passo sotto la neve, la sento penetrarmi nel collo e raffreddarmi la pelle.
“Guarda che lo so”, mi risponde Beth. “È inutile che vai a nasconderti da qualche parte.”
Mi fermo, alzo lo sguardo su di lei, torno rapidamente sotto la veranda.
“So che hai ricominciato a fumare”, dice lei con aria indifferente. “Quella roba uccide, ammazzati davanti a me se davvero credi che ne valga la pena.”
Rimango zitto. Sento un rivolo d’acqua ghiacciata scendermi lungo la schiena, ho un brivido lungo un’eternità.
Tiro fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca, ne prendo una. La giro tra le mani, la annuso. Camel Blue. Come ai vecchi tempi. Ne annuso una, sento quell’odore di tabacco dolce e liquoroso, la infilo tra le labbra e rimango così, con gli occhi di Beth puntati su di me come fiamme ossidriche.
Prendo un lungo respiro.
Poi senza dire niente spalanco le labbra e mentre la sigaretta vola verso la strada lancio la palla di neve con tutta la forza che ho in mezzo al niente, prendo Beth per mano e inizio a correre in mezzo a tutto quel bianco. La sento urlare dietro di me ma non mi fermo. Dopo qualche passo Beth smette di fare resistenza e comincia a muoversi veloce, appare al mio fianco, corre anche lei accanto a me e siamo rapidi, e potentissimi, distruggiamo ogni muro, voliamo trascinati dal vento e urliamo al mondo le nostre velocità. In quella corsa insensata attraversiamo la piazza grande, proseguiamo sul viale e neanche la salita riesce a fermarci, poi giriamo circondando la cattedrale e facciamo vibrare le vetrate gotiche, squarciamo la nebbia e lasciamo un turbine di foglie secche dietro a noi, arriviamo dritti davanti alle luci della galleria e ci fermiamo davanti a una vetrina addobbata con un’infinità di origami colorati. Guardo Beth, mi guarda anche lei. Sposto gli occhi sulla vetrina e mi riempio la vista.
Parlo, e dalla bocca mi esce fiato, sputo, voce, e tutto sembra avere un senso.
“Non ti pare che sia questo il motivo per cui valga davvero la pena respirare, Beth?”, indico la vetrina, gli origami, e ancora più in là, indico le nostre lacrime sospese nel vento.
Beth riprende fiato affannata per la corsa, stanca ma ancora fiera, e mostruosamente bella. Il paesaggio dietro di lei è bianco. Ma lei no. Non è bianca.
Noi due siamo diversi.
All’interno del negozio si accende una luce e il riflesso di quei mille origami ci abbaglia entrambi.
“Eccome se ne vale la pena”, dice lei, e ingoia saliva.
Rimaniamo lì ancora un po’, immobili, a piangere colori.