02 maggio 2008
Brucio vivo
Trovo un posto libero. Neanche ho spento la macchina che Beth salta fuori. Spinge la faccia sul finestrino accanto a me, il naso le si appiattisce tutto. Batte i pugni sul vetro e mi urla di scendere, ha i capelli sconvolti e spettinati dal vento. Sembra uno zombie in un film dell’orrore.
“Scendi! Andiamo al mare!”, urla. Sembra contentissima.
Il marciapiede è coperto da un sottile strato di sabbia e ogni passo mi fa scricchiolare. Mi ricorda l’estate. Mi ricorda anche quella scena di Indiana Jones in cui il bambino dice mi sembra di camminare sui biscotti e poi scopre che il pavimento è pieno di scarafaggi. Guardo Beth.
“A cosa stai pensando?”, mi chiede.
Non ho nessuna intenzione di dirglielo.
“Cosa faremo poi?”
“Poi quando?”
“Dopo. Quando prenderò questa cazzo di laurea. Quando ti diplomerai.” Scavalco il muretto e salto sulla spiaggia. “Cosa faremo?”
Camminiamo un po’ in silenzio, soltanto noi e il suono delle onde.
“Tu diventerai ricco e lavorerai in un posto pulito con i muri troppi bianchi insieme a dei tipi incravattati che nemmeno ricordano com’è fatta la loro moglie”, dice tutto d’un fiato.
“Non è molto allettante.”
“Dopo qualche anno tradirai un tuo collega e arriverai ai vertici della società. E guarderai gli altri dall’alto della tua potenza.”
“Non è questo il mio futuro.”
Mi sento le scarpe pesanti e piene di sabbia. Avrei dovuto mettere le infradito, ma come al solito non le ho trovate. Chissà mia madre dove le ha nascoste. Forse nella scarpiera dietro la porta del bagno.
“Io credo di sì”, mi guarda maliziosa.
“Impossibile.” Scaccio un insetto dal braccio. “In questo futuro non ci sei tu.”
Una moto passa veloce nel lungomare, riempie l’aria di un suono vecchio e minaccioso. Non dovrebbe essere qui. Vattene via. È il nostro spazio.
“Ruchette di mare”, dice Beth.
“Eh?”
“Guarda.”
Indica un punto in lontananza, dove la spiaggia finisce e inizia l’erba. C’è un ciuffo di fiori rosa a pochi metri dalla riva. Sembrano spuntarle direttamente dalle dita.
“Come fai a saperlo?”
“Mia mamma da piccola mi portava sempre a raccogliere fiori per mia nonna, di ognuno mi insegnava il nome. Diceva che le avrebbero portato fortuna.” Si china a raccogliere una conchiglia mangiata dal mare. “Quando poi mia nonna è morta mi sono sentita in colpa per un sacco di tempo. Pensavo di averne raccolti troppo pochi.”
Il mare è calmo, l’aria immobile. Ci fermiamo a pochi passi dall’acqua, mi tolgo i vestiti, rimango con i miei boxer bianchi con le palme disegnate sopra. Li adoro. Beth fa lo stesso e non posso fare a meno di notare quanto sia bella. La luce le si infila nel costume e sembra inciampare nelle pieghe della sua pelle. Con lei accanto è come se ogni cosa fosse minuscola. Il mare è un granello di sabbia. Le nuvole sono granelli di sabbia. Ogni minuto è un granello di sabbia.
“Smettila di entrarmi in testa”, le dico.
“Smettila di guardarmi.”
È accecante come stare in cima a una pista da sci, con il sole che batte forte sulla neve, nel cuore la consapevolezza della velocità. Mi stendo e chiudo gli occhi. Sto bruciando.
01 maggio 2008
Rischiare la pelle
Mi guardo allo specchio, sono talmente pallido che sembro un cadavere. Non vedo la luce del sole da decisamente troppo tempo. Ieri ho dato un esame, un mese di studio andato in fumo per colpa di un’assistente che ha sfogato con sistematica crudeltà le sue ansie su di me. Una tipa troppo alta per essere una donna, dai tratti somatici duri e disarmonici, i capelli lunghi e atavicamente sporchi. I seni appesi e liberi le ricadevano sul petto, brevi e adeguati come punti esclamativi. Mi ha detto con un tono di voce virile che uso termini inappropriati e per questo mi ha messo 25. Brutta troia. Il lesbismo represso è pericoloso per la società e va estirpato alla base con tutta la violenza possibile.
Mia madre è partita con Topher e sono solo in casa da una settimana. Non ho avuto tempo di fare la spesa. Il frigo è desolante: una zucchina, una carota, un barattolo aperto di maionese scaduta da tempo, un pezzo di formaggio e due pomodori. Ho una fame pazzesca. Butto la maionese, accendo la tv e mentre guardo i Griffin mi preparo un piatto con tutto il resto. Taglio la carota con la grattugia fino a ridurla in striscette sottili, alla julienne come direbbe un vero Chef. Soffriggo la zucchina insieme ai pomodori. Unisco tutto insieme e il risultato è delizioso. Dovrei aprire un ristorante alternativo. Un ristorante in cui si usano soltanto gli avanzi. Diventerebbe famoso e rinomato e guadagnerei un sacco di soldi. Ho voglia di uscire, aspetto la pubblicità e prendo il telefono.
“Pronto?”, mi risponde dopo pochi squilli.
“Ei Beth.”
“Ma allora sei vivo.”
“Che fai?”
“Studio.”
“Cosa?”
“Bartok. Per l’esame.”
Io odiavo Bartok. Quando dovevo studiarlo mi inventavo qualche scusa e arrivavo a lezione impreparato. Il maestro si arrabbiava sempre con me. Una volta mi aveva addirittura fatto piangere davanti a tutti. Una vergogna terribile. Beth mi aveva consolato per un’ora fuori dalla classe. Mi aveva detto di non ascoltare nessuno e che ero bravo quanto lei. Io sapevo che non era vero perché Bartok le veniva alla perfezione.
“Pensavo di andare al mare.”
“Quando?”
“Adesso.”
“Sei pazzo.” C’è un lungo silenzio. “Non posso.”
“Sì che puoi. Ti vengo a prendere.”
“Ma non posso.”
“Finisco di vedere i Griffin e arrivo.”
Mia madre nasconde tutto. Per lei mettere in ordine significa inserire qualsiasi cosa in delle buste di plastica e infilarle nei posti più assurdi. La nostra casa è così ordinata che sembra uscita da un catalogo di mobili. O da una pubblicità televisiva. Sembra una di quelle case abitate da famiglie felici in cui la moglie sveglia il marito portandogli il caffè a letto, poi vanno insieme a fare colazione e mangiano i cereali di chissà che marca. Meravigliandosi per quante poche calorie contengano. Niente di più lontano da quello accade qui dentro. Non ci sono cereali. Non siamo più nemmeno una famiglia. Non tutta intera, almeno.
Il risultato della mania di mia madre per l’ordine e la pulizia è che non riesco mai a trovare niente quando mi serve. Ogni cosa è nel posto giusto, e ciò che non ha un posto semplicemente non si vede. È davvero stressante. Le mando un SMS: Dove sono i costumi?.
Mentre aspetto che mi risponda faccio una doccia. È finito il bagnoschiuma e devo lavarmi con lo shampoo. Odio lavarmi con lo shampoo. Mi fa sentire ancora più sporco di prima: è come avere addosso la pelle di qualcun altro. Mi asciugo i capelli e non sento la suoneria squillare, mi accorgo del messaggio soltanto quando ho finito. Prendo il cellulare con le mani ancora bagnate. Mi ha scritto: Nell’armadio in camera mia. In alto. In fondo.
Il sole di Giugno è terribile. In genere amo il caldo, è strano che mi dia così fastidio. È che me lo aspettavo più dolce, meno avido. Invece la luce scava sulla mia faccia come un cercatore d’oro.
“Sei proprio negato”, mi dice Beth ridendo.
Non è vero.
“Guido benissimo”, le rispondo. “Sono soltanto molto prudente.”
“Secondo me sei negato.”
“Vorrei ricordarti che l’ultima volta che hai guidato tu abbiamo rischiato la pelle.”
“Beh ero molto tesa”, ride ancora. “E poi è successo più di un mese fa e siamo entrambi ancora vivi.”
È già passato così tanto tempo. Dal saggio. L’esame mi ha assorbito completamente e non mi sono reso conto dei giorni che scorrevano uno dopo l’altro dietro di me. Ripenso all’assistente stronza e al mese che ho buttato per colpa sua. Mi viene in mente l’immagine di lei che si guarda allo specchio e muore uccisa dalla sua stessa bruttezza.
“Sei felice?”
“Di essere qui?”, mi fissa e il suo sguardo mi brucia anche se ho gli occhi puntati sulla strada. “A quanto pare non avevo molta scelta.”
“Rispondi e basta, sei felice?”
“Non lo so.” Mi basta.
Non c’è nessuno in giro. Sono le due del pomeriggio di un mercoledì qualunque ed è come se fossi il proprietario del mondo. Come se tutti fossero svaniti nel nulla in un istante per andare in un altro posto. Immagino le case vuote, il cibo lasciato a bruciare sui fornelli, i fax muti e senza vita negli uffici. Siamo rimasti soltanto io e Beth. Padroni della terra. È una sensazione inebriante.
“Sto scrivendo un libro, sai?”
“Tu?”
“Sì”, quando lo dico mi gira la testa. “Una specie di romanzo.”
“Wow”, mi dice. “E di che parla?”. Striscia sul sedile fino a toccare con le ginocchia sul cruscotto.
“Top secret.”
“Dai, a me puoi dirlo.”
“Se te lo dico poi perdo la mia unica lettrice.”
“Guarda che non lo comprerei comunque, un libro scritto da te.”
Inserisco l’autoradio e la musica riempie l’abitacolo in un secondo. Non conosco questa canzone. Non la conosce nemmeno Beth però fa finta di cantarla. Ha il cellulare in mano e lo usa come microfono. Storpia tutte le parole e urla come una pazza, il risultato è divertentissimo. Mi fa male la pancia da quanto sto ridendo.
29 aprile 2008
28 aprile 2008
Un giorno importante
“Hai visto il telegiornale stamattina?”, mi dice tutta agitata.
“Che è successo?”
“Come, non lo sai?”
“Non so nulla!”
Le porte a casa di Beth sono sempre tutte aperte e il sole inonda di bianco il corridoio. La luce è fortissima, entra nelle cose e se mi sforzo posso vedere gli oggetti nei minimi dettagli. Posso arrivare a distinguere le molecole. O gli atomi. È per questo che il sole mi rende felice.
“Davvero non sai nulla?”, continua.
“Già. Dimmi che è morto Bush…”
“No, non è successo niente. In realtà volevo solo creare un po’ di allarmismo inutile.”
“Uff.”
“Mi serviva per sdrammatizzare un po’.”
“Sei tesa?”
“Molto.”
“Sei bellissima anche così.”
“Grazie.”
“Non è un complimento. È invidia.”
Mentre Beth si lima le unghie vado in cucina a prendere qualcosa da mangiare. Non ho fatto colazione e ho una fame pazzesca. Apro la credenza; trovo dei biscotti al cocco, due plumcake del discount e una scatola già aperta di cereali al cioccolato. Sembra tutto buonissimo e pieno di conservanti e agenti chimici. Sembra esattamente la tipologia di prodotto che mia madre osserva con disprezzo quando va al supermercato.
Scelgo i cereali e torno in camera. Devo avere la bocca molto sporca perché Beth scoppia a ridere appena mi vede, che bastarda.
“Aiutami ad allacciare questo affare.”
“Non sono in grado. Ma cos’è?”
“Idiota. È un vestito, sai, serve per non andare in giro nudi. Ha dei buchi per infilare le braccia e dei bottoni per chiuderlo sulla schiena.”
“Hai un libretto d’istruzioni?”
“No. Ecco vedi, questi rotondi sono i bottoni. Devi infilarli nei buchetti dall’altra parte.”
Fatto. Apro lo zaino con una mano sola perché l’altra è sporca di cioccolato. Faccio un casino e casca tutto per terra, le chiavi di casa, il portafoglio, l’ultimo numero di Scrittura Creativa e una grande busta di carta gialla. Beth ride ancora, io tiro fuori un foglio dalla busta.
“Ecco il programma.”, le dico.
“Fai vedere, fai vedere!”, urla piena di eccitazione.
Me lo strappa di mano e lo osserva con lo sguardo attento. In alto c’è una scritta in viola acceso: Saggio della classe della maestra Elizabeth Mills. In mezzo la foto di un bambino che suona un pianoforte. L’ho trovata su Google. Il bimbo è bellissimo, sembra minuscolo in confronto all’enormità dello strumento. Ho fatto un ottimo lavoro.
“È adorabile.”
“Sono contento che ti piaccia.”
“Però lo sai che odio essere chiamata Elizabeth.”
“Beh, è il tuo nome.”
“Non mi è mai piaciuto.”
“Ad ogni modo ho stampato anche la versione con scritto solo Beth.”
Mi sorride. Perché nessuno la conosce meglio di me.
“Usciamo?”
“Sì.”
È un giorno importante.