Stiamo percorrendo il lungomare alla ricerca di un parcheggio e una voce maschile dice alla radio che il papa è un baluardo di spiritualità e di integrità intellettuale. Beth ha le labbra sporche di marmellata. Mastica l’ultimo boccone di cornetto e manda giù. Osservo le briciole cadere nel tappetino e dentro di me la maledico; io devo essere buono, penso. Abbasso il finestrino e subito entra un odore fortissimo di carne alla brace e di grasso che si scioglie. Il fumo è denso e quasi unticcio. Mi guardo intorno, probabilmente proviene da una delle tante villette che si affacciano sulla strada.
Trovo un posto libero. Neanche ho spento la macchina che Beth salta fuori. Spinge la faccia sul finestrino accanto a me, il naso le si appiattisce tutto. Batte i pugni sul vetro e mi urla di scendere, ha i capelli sconvolti e spettinati dal vento. Sembra uno zombie in un film dell’orrore.
“Scendi! Andiamo al mare!”, urla. Sembra contentissima.
Il marciapiede è coperto da un sottile strato di sabbia e ogni passo mi fa scricchiolare. Mi ricorda l’estate. Mi ricorda anche quella scena di Indiana Jones in cui il bambino dice mi sembra di camminare sui biscotti e poi scopre che il pavimento è pieno di scarafaggi. Guardo Beth.
“A cosa stai pensando?”, mi chiede.
Non ho nessuna intenzione di dirglielo.
“Cosa faremo poi?”
“Poi quando?”
“Dopo. Quando prenderò questa cazzo di laurea. Quando ti diplomerai.” Scavalco il muretto e salto sulla spiaggia. “Cosa faremo?”
Camminiamo un po’ in silenzio, soltanto noi e il suono delle onde.
“Tu diventerai ricco e lavorerai in un posto pulito con i muri troppi bianchi insieme a dei tipi incravattati che nemmeno ricordano com’è fatta la loro moglie”, dice tutto d’un fiato.
“Non è molto allettante.”
“Dopo qualche anno tradirai un tuo collega e arriverai ai vertici della società. E guarderai gli altri dall’alto della tua potenza.”
“Non è questo il mio futuro.”
Mi sento le scarpe pesanti e piene di sabbia. Avrei dovuto mettere le infradito, ma come al solito non le ho trovate. Chissà mia madre dove le ha nascoste. Forse nella scarpiera dietro la porta del bagno.
“Io credo di sì”, mi guarda maliziosa.
“Impossibile.” Scaccio un insetto dal braccio. “In questo futuro non ci sei tu.”
Una moto passa veloce nel lungomare, riempie l’aria di un suono vecchio e minaccioso. Non dovrebbe essere qui. Vattene via. È il nostro spazio.
“Ruchette di mare”, dice Beth.
“Eh?”
“Guarda.”
Indica un punto in lontananza, dove la spiaggia finisce e inizia l’erba. C’è un ciuffo di fiori rosa a pochi metri dalla riva. Sembrano spuntarle direttamente dalle dita.
“Come fai a saperlo?”
“Mia mamma da piccola mi portava sempre a raccogliere fiori per mia nonna, di ognuno mi insegnava il nome. Diceva che le avrebbero portato fortuna.” Si china a raccogliere una conchiglia mangiata dal mare. “Quando poi mia nonna è morta mi sono sentita in colpa per un sacco di tempo. Pensavo di averne raccolti troppo pochi.”
Il mare è calmo, l’aria immobile. Ci fermiamo a pochi passi dall’acqua, mi tolgo i vestiti, rimango con i miei boxer bianchi con le palme disegnate sopra. Li adoro. Beth fa lo stesso e non posso fare a meno di notare quanto sia bella. La luce le si infila nel costume e sembra inciampare nelle pieghe della sua pelle. Con lei accanto è come se ogni cosa fosse minuscola. Il mare è un granello di sabbia. Le nuvole sono granelli di sabbia. Ogni minuto è un granello di sabbia.
“Smettila di entrarmi in testa”, le dico.
“Smettila di guardarmi.”
È accecante come stare in cima a una pista da sci, con il sole che batte forte sulla neve, nel cuore la consapevolezza della velocità. Mi stendo e chiudo gli occhi. Sto bruciando.
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