09 maggio 2008

Trentuno passi

C’è odore di cera e di lenzuola lavate troppo spesso. L’aria sa di metallo e di anidride carbonica. Sa di effetti collaterali. I muri sono bianchi, di quel bianco privo di macchie che lascia scivolare lo sguardo senza concedere neanche un appiglio. Di quel bianco innaturale che mette paura. Questo posto è insopportabilmente pulito.
“Non saresti dovuto venire”, dice Topher.
Si sbaglia.
“Ti sbagli”, scuoto la testa contrariato.
“Che vieni a fare ogni giorno se nemmeno mi porti un regalo?”
“Vuoi vedere cosa vengo a fare?”, esclamo. Poi immergo la faccia nel suo cuscino e soffio forte proprio alla base del collo per fargli il solletico. Ride come uno scemo.
“Smettila!”
Da quando è qui dentro ho smesso di dimenticarmi che è ancora un bambino. Prima mi capitava spesso, passavo giornate intere a considerarlo un coetaneo. Mi meravigliavo dei suoi commenti infantili, gli raccontavo di politica e di filosofia. Da un mese non lo faccio più. Ora gli parlo come si parla ad un ragazzino, l’ombra dei videogiochi e delle altalene a riempire i vuoti tra una frase e l’altra. Mi fa tenerezza. È troppo stanco per sembrare un uomo.
“Chiudi un po’ le tende per favore?”, chiede.
Caccio la luce dalla stanza e la penombra mi mette un po’ di tristezza. C’è il ticchettio costante di un macchinario attaccato alle vene di Toph. C’è il sangue che si riassorbe lentamente nella sua spina dorsale, goccia a goccia. C’è il senso di quella situazione ad aleggiare sui nostri volti così simili. C’è il ricordo di mio padre, quando anche lui riempiva un letto identico svuotandosi giorno dopo giorno. Non voglio più pensare a tutto questo.
“Hai ragione, ti faccio un regalo.”
Entra mia madre nella stanza e appena mi vede sorride di tutta la gioia che può. Ha un vestito blu. È elegante come sempre.
“Come sta l’amore mio?”, esclama guardandoci entrambi.
Lo dice come se fossimo due concorrenti di uno di quei quiz a premi che mandano nelle televisioni locali prima dell’ora di cena. Lo dice come se potesse svelarci il significato dell’universo.
“Al solito”, mugugna Topher.
“Qui dentro sembra una caverna, apriamo un po’ le tende!”
“Toph mi ha appena chiesto di chiuderle, mamma”, le dico. “Piuttosto, hai un po’ di soldi da darmi?”
Mentre rovista nella sua borsa di pelle mi chiedo come mai ogni giorno si porti appresso tutta quella roba. C’è di tutto lì dentro. Perfino un tagliacarte. Mi domando a cosa possa servirle un tagliacarte nella borsa.
“Cosa devi farci?”, chiede mentre mi porge qualche banconota. Conto rapidamente con gli occhi. Dovrebbero bastare.
“Una cosa.” Faccio l’occhiolino a Toph che mi sorride di rimando.
“Voglio vedere la tv”, dice.
Cambio canale finché non trovo un programma con un tipo che canta I want to break free con un costume da Freddy Mercury fatto di carta. A metà canzone si strappa il vestito e sotto appare un costume da Kylie Minogue e inizia a cantare It’s in your eyes. Va avanti così trasformandosi in continuazione, ed è davvero divertentissimo.
Un uccellino si ferma sul davanzale della finestra, il sole proietta la sua ombra sulla tenda. Cinguetta un po’ e poi vola via di nuovo. Apro un pacchetto di patatine alla paprika, le ho prese al distributore automatico all’ingresso dell’ospedale. Ne ficco una manciata in bocca a Toph. Mentre mastica rumorosamente penso che forse siamo riusciti a vincere noi.
Forse si sente un po’ a casa.

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