Sta fermo nella sua tana di carta ad aspettare. Si lecca i baffi, le vibrisse tremolanti a spazzolare tutto intorno come raffinati polpastrelli. Ogni tanto si allontana un po' dal suo rifugio improvvisato, in una sorta di perlustrazione timorosa e inefficace: ma non esce mai da un intorno nitido e preciso, il cui confine è dettato dall'ansia e dalla paura. Pochi passi minuti in una direzione, ed ecco che in un balzo torna indietro, la velocità del rientro almeno doppia di quella della dipartita. Continua così, in questa danza estranea, ad aspettare.
Ecco uno scricchiolio, cosa sarà! Il cuore batte sempre più veloce, limite e progresso insito nelle sue stesse dimensioni. Nel silenzio la percezione è capillare, si insinua nel retro delle cose e illumina ogni zona d'ombra. Un lampo rapidissimo si vede in lontananza, chi va la! E' solo un gatto spaventato, basterà restare immobile e aspettare la sua uscita dalla stanza. Un miagolio insoddisfatto, ed è già andato.
Passa il tempo e la paura di un po' prima mette fame al roditore. Strappa lesto un angolino dal taccuino che è la tana, poi un altro e un altro ancora, si sfama con un intero martedì pieno di inviti e appuntamenti, l'inchiostro blu a insaporire quell'odore di cellulosa. Nel masticare perde un po' la sua attenzione. Ed ecco che nemmeno se ne accorge ma la porta è spalancata, due gambe umane muovono passi enormi e distinti, una voce stentorea rimbomba sbadigli terrorizzanti; ormai la luce ha invaso tutto e non ci sono vie di fuga. Il sangue sembra esplodergli nel petto, pensa invano a come andare ma già sa, non rimane che sperare che l'intruso non si accorga che lui è lì.
C'è un soprammobile di vetro accanto a lui: è un oggettino di cristallo, un pianoforte con i tasti d'oro finto. Piano piano ci si infila tutto sotto, che ridicola agonia: un ratto brutto grigio e sporco a farsi niente sotto il niente. Prende gli ultimi respiri prima di una lunga e triste apnea. Intanto l'uomo sembra attratto da qualcosa non distante; è una rivista, sta s'un tavolo lì accanto. Con la carta satinata e lucida, l'inchiostro nero delle pubblicità di moda a ricoprire le prime venti pagine: roba per chi si accontenta, a me fa schifo, riflette il topo. E si sorprende della sua stessa arroganza, lì a pensare al gusto buono in un momento così brutto.
L'uomo intanto sta seduto sul divano, a sfogliare e sbadigliare; forse si addormenterà e potrò andarmene sicuro, pensa lui, i baffi accorti a tremolare di piacere a quell’idea. Ma purtroppo non è tutto oro quel che luccica, ed ecco che uno spostamento microscopico della coda muove un poco il soprammobile, portando il riflesso della lampada a rimbalzare ‘sì preciso sopra i tasti del minuscolo strumento; e poi l’ottone di una scarsa qualità rigetta via quel luminoso, quasi a voler dire: non mi merito il brillare. E il fato anche ci si mette contro il topo, perché di tutti i luoghi dove rimandare quel riverbero, sceglie proprio gli occhi chiusi del gigante affaticato, che disastro, che sfortuna!
In un baleno c’è il risveglio: quel riavvio di conoscenza e percezione di chi non vorrebbe averlo ed è annoiato e non capisce. Le pupille ridottissime per causa della luce sbattono a destra e poi a sinistra, l’attenzione a perlustrare tutto intorno alla ricerca di chi ha imposto quella veglia. In un momento ecco scovato l’animale, un urlo, un tremito, c’è un topo nel mio studio!
La fuga e la rincorsa durano poco, quattro zampette possono poco contro due gambe così lunghe, il roditore sta immobile in un angolo e non può più fare niente. E’ la fine, pensa. Sono morto e non potrò mai più mangiare carta, né formaggio, né correre tra un buco e la cucina. Sono morto e questo è l’ultimo momento in cui son vivo. Poi la grazia viene spinta da chissà che Dio dei Topi perché l’uomo guarda in alto e si accorge del taccuino mezzo aperto: con rabbia e odio si avvicina, lo afferra schifato, quella saliva animale a ripugnarlo. Mentre sfoglia inorridito si accorge del misfatto: manca un giorno, manca un altro, non c’è più mezzo dicembre, si è ingoiato pure Pasqua e Carnevale. Maledetto, ora muori.
Mentre l’uomo si dispera dei suoi impegni diventati cibo e vita dentro il corpo di un peloso e microscopico esserino, ecco lui che scatta proprio tra le gambe, una Tod’s gli sfiora il muso e strappa un baffo ma il dolore non è niente nei confronti del poter restare vivo. Già sta fuori, il roditore. Sta nel buco che conduce a un’altra casa. Le zampine che potevano ammazzarlo per la loro dimensione, sono adesso la salvezza: a condurlo dove un uomo non arriva. Passa in fretta la tensione, passa il lutto, passa pure l’appetito. La paura, però, non gli passa ancora a lungo.
Nella notte si ritrova a vomitare il martedì. Da domani mangio pure Panorama, pensa e ride.
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