Alle due e cinque di pomeriggio di un ventiquattro agosto particolarmente caldo Diane Olsen si svegliò con la maglietta zuppa di sudore e un paio di short rosa macchiati di cioccolato sulla gamba sinistra. Diane socchiuse gli occhi con un’espressione contrariata sul viso, distese le braccia verso l’alto muovendo il lenzuolo su e giù nel tentativo di far passare un po’ d’aria e poi rimase immobile a fissare il soffitto. La luce filtrava dalle persiane spalancate e le arrivava dritta in faccia, ma lei non si lasciò scoraggiare. Si sforzò a lungo di trovare una posizione comoda per continuare a dormire, provò a girarsi di schiena ma non riusciva a respirare e sentiva troppo caldo, provò a mettersi su un fianco ma in quella posizione non riusciva a prendere sonno, finché alla fine dovette ammettere a se stessa che l’unica alternativa seria che le si parava davanti consisteva nell’alzarsi dal letto e chiudere la persiana.
Diane Olsen si trascinò a fatica fino al bordo del materasso, si mise a sedere sul letto con le gambe incrociate e iniziò a imprecare tra sé e sé. Mentre continuava a bestemmiare, sforzandosi di mettere a fuoco le forme intorno a lei, le venne all’improvviso in mente il sogno che aveva fatto appena prima di aprire gli occhi. Aveva in testa diverse figure sfocate, il ricordo era molto confuso, ma concentrandosi molto Diane riuscì a distinguere alcuni dettagli. In quel flusso indistinto di immagini c’era lei che camminava in un bosco freddo e innevato, le sue orme a perdersi nell’oscurità alle sue spalle. Poi c’era un bicchiere di limonata pieno fino all’orlo, Diane lo stringeva nella mano destra e tentava di mantenere l’equilibrio in modo da non farne cadere nemmeno una goccia mentre si muoveva goffamente nella neve fresca tra gli alberi. Nel sogno quella limonata era davvero importante, Diane ricordava distintamente di averla rubata a qualcuno e sapeva anche che quel qualcuno la stava inseguendo per riprendersela. Non riusciva a ricordare cosa ci fosse di così fondamentale in un bicchiere di limonata, ma quell’inseguimento era davvero troppo stressante e così alla fine si era svegliata, zuppa di sudore.
Con movimenti lentissimi, dettati dalla stanchezza, dal caldo e dallo sconforto, Diane riuscì ad allungare le gambe in modo da stenderle fino al pavimento. Il contatto delle dita con il marmo freddo le provocò un piccolo brivido di piacere, si allungò ancora fino a toccare il suolo con tutta la palma dei piedi, e così dopo qualche istante smise finalmente di bestemmiare. Sollevò lo sguardo fino alla finestra e guardò fuori fino al palazzo di fronte, i panni stesi ad asciugare nei terrazzi indugiavano immobili, appesi ai fili di plastica, senza neanche un filo di vento a incresparli e a farli dondolare. Non sembravano esserci segni di vita umana da nessuna parte. In effetti era una giornata davvero afosa e Diane Olsen stava morendo di caldo, ed è per questo che in quel momento decise di rinunciare definitivamente a dormire, tese i muscoli delle braccia per darsi una spinta e si alzò in piedi.
Appena si mise in posizione eretta fu colta da un piccolo calo di pressione, le si offuscò la vista e dovette appoggiarsi al muro per non perdere l’equilibrio. Prese un lungo respiro, rimase immobile qualche secondo e aspettò che il giramento di testa le passasse. Si sentiva debole e aveva fame. Inoltre percepiva distintamente l’odore di limonata ancora nell’aria, e desiderava averne un bicchiere ghiacciato con tutta se stessa. Diane sapeva perfettamente che nel frigorifero non c’era nulla di lontanamente simile a una limonata ghiacciata, ma con un po’ di fortuna avrebbe potuto trovare una Coca Cola o una Sprite. Il padrone di casa amava le bevande gassate e praticamente non beveva altro. Diane camminò strascicando i piedi nudi sul pavimento fino alla porta della sua stanza, prima di uscire lanciò un’occhiata alla sua figura riflessa nello specchio sopra alla scrivania. Vide una ragazza decisamente troppo magra, con la faccia scavata e un po’ di trucco residuo intorno agli occhi. Scosse la testa e guardò la radiosveglia, spalancò gli occhi per lo stupore. Non si era accorta di quanto fosse tardi.
È per tutti questi motivi che alle due e ventisette di pomeriggio del ventiquattro agosto Diane Olsen uscì dalla sua stanza indossando soltanto una maglietta zuppa di sudore e un paio di short rosa macchiati di cioccolato sulla gamba sinistra.
Il corridoio era inondato di una luce bianca e fortissima e per non rimanere accecata dovette socchiudere gli occhi. Diane si mosse lentamente sul parquet sporco e scricchiolante, stando ben attenta ad evitare i listelli più sconnessi in modo da non fare troppo rumore. I suoi occhi si posarono per l’ennesima volta sui quadri appesi in serie nel breve pezzo di muro bianco prima della porta del bagno. Vi erano rappresentate le divise da guerra di tutti gli eserciti più famosi della storia. Il padrone di casa era un fanatico di cultura militare e l’appartamento era pieno di riferimenti, più o meno velati, a questa sua grande passione. Diane continuò a camminare passando in rassegna le cornici una dopo l’altra, si soffermò qualche secondo in più davanti alla sua preferita. Era quella che raffigurava la tenuta d’ordinanza dei marescialli francesi durante il periodo napoleonico. Ciò che maggiormente la impressionava non era la sfarzosa decorazione di foglie di quercia in oro ricamate sulla divisa, partendo dal petto fino ad arrivare alle code della giacca e nel rovescio delle maniche; piuttosto Diane era colpita dalla particolare espressione che il ritrattista aveva colto sul viso di quel militare e fissato con la matita sulla carta. In effetti un occhio attento poteva notare senza difficoltà che, fra tutti i soldati ritratti in quella serie di piccoli quadri, il maresciallo francese dell’impero napoleonico era l’unico che stava ridendo.
Diane entrò in bagno per fare pipì senza chiudere a chiave la porta. Il padrone di casa era certamente uscito parecchie ore prima per andare a lavoro, e lei era sicura di essere rimasta sola nell’appartamento. Per questo motivo non si preoccupò, una volta soddisfatto il suo bisogno fisiologico, di occupare la stanza per più di mezzora con lo scopo di pulirsi il trucco dal viso e di definire le sopracciglia con le pinzette. Lo specchio rotondo fissato alla parete ingigantiva i dettagli in maniera mostruosa e permetteva di osservare le più piccole imperfezioni della pelle con crudele accuratezza. Diane pensò per l’ennesima volta che era l’ora di comprare un trattamento specifico per mandare via un po’ di brufoli, ma in cuor suo sapeva perfettamente che se ne sarebbe dimenticata anche oggi, come sempre, nel giro di pochi minuti. Quando uscì dal bagno erano ormai le tre di pomeriggio passate.
Diane sentì il suo stomaco mormorare rumorosamente per la fame e pensò che era arrivata l’ora di mangiare qualcosa, perciò si diresse verso la cucina. Dopo qualche passo però si fermò con un’espressione sorpresa sul viso, si chiese tra sé e sé come mai la porta di vetro oscurato della cucina fosse chiusa. Il padrone di casa aveva, tra le varie fissazioni che accompagnavano ogni suo movimento, anche quella di lasciare spalancate tutte le possibili aperture dell’appartamento. Diceva che in questo modo era impossibile nascondersi qualcosa, e sosteneva con convinzione che la sincerità e l’onestà fossero requisiti essenziali per una convivenza sana e orientata al bene comune. Diane aveva faticato non poco ad abituarsi a quella regola strana, le cui uniche eccezioni riguardavano la porta del bagno e, soltanto durante le ore di sonno, quella della sua stanza. Per questo rimase assai stupita, per non dire contrariata, nel trovare quel pomeriggio la porta di vetro oscurato della cucina completamente chiusa. Diane aprì la porta con uno scatto di prepotenza, quasi volesse affermare lei stessa che quel movimento era il concretizzarsi di una regola importante, e che nessuno poteva in nessun modo permettersi di infrangerla. Ma Diane dovette convenire subito dopo che non era l’ira, ma piuttosto altro stupore, il sentimento più adatto a quei frangenti. In effetti la situazione era assai strana. Davanti a lei c’era uno sconosciuto, a petto nudo, in piedi davanti al frigorifero, con un cartone di latte in mano.