22 marzo 2008

Riposino in pace

Quattro uomini, una donna, una morta e un prete: facevano sette corpi tristi, a quello strano funerale. Tacevano tutti per me. Ed io predicavo vite eterne con un crocifisso in mano, nel frattempo osservavo quei mondi collidere insieme. Le coincidenze non esistono, pensai mentre declamavo il Credo. Le coincidenze non esistono.
C'era un ragazzo con gli occhi blu come il ghiaccio; sul volto lo strazio di chi da innocente ha ucciso una donna uccidendo un uomo.
C'era un vecchio onesto e spaventato che era morto e risorto e che poi aveva trovato l'amore nel corpo avvizzito di un simile a lui.
C'era una morta ormai bianca cadavere, magra, bellissima, le labbra piegate in un disgusto immobile e supremo, maledetto giudizio divino.
C'era un signore dall'aria un po' esotica e il viso di chi finalmente è riuscito a trovare il silenzio dopo anni di voci assordanti guardate con gli occhi.
C'era una viva che era uguale alla morta e che camminando affettava l'ambiente con passo leggero, piangeva e pregava timorosa di Dio, troppo tardi era arrivata, troppo tardi.
C'era un anziano spazzino che era triste per lei ma era allegro per lui, nascondeva un sorriso d'amore tra le pieghe di un'espressione afflitta.
E poi c'ero io, prete umile e anonimo, che in quel misto di anime e corpi trovavo più senso che in ogni possibile altrove.
"L'eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda per essi la luce perpetua", dissi.
E finalmente mi fu chiaro tutto il retro delle cose.
"Amen".



[Il retro delle cose - un racconto in sette parti scritto in una strana settimana di marzo del 2008]

21 marzo 2008

Pulizia, ordine, chiarezza

Due sono i mestieri più vecchi del mondo uno dell'uomo uno della donna, entrambi si fanno di notte ed entrambi insozzano, uno sporca la donna dentro e l'altro l'uomo fuori, sono nobili negli intenti ma squallidi nei modi; al mattino i più si dimenticano di coloro che praticano tali mestieri e che nel buio hanno lavorato per loro, pochi amici per questi esseri tristi, poche lodi e ringraziamenti; necessari ad un mondo migliore questi uomini e donne sono ignorati da tutti, il giorno dormono per vivere poi; nessuno diventa regina nè comandante, nessuna medaglia appuntata sul petto; in tanti ne muoiono ogni sera ma nessuno sa di loro, quante storie potrebbero dire, quante storie; tra loro si conoscono tutti, tra loro si conoscono tutte, si mescolano spesso per una sigaretta in qualche pausa illuminata da un lampione; due sono i mestieri più vecchi del mondo uno dell'uomo uno della donna; la puttana; e il netturbino.
"E' vivo, è vivo!", urlai quando il vecchio si mosse per stringermi forte una mano.
Ci eravamo separati un'oretta prima per pulire due strade diverse, nei suoi occhi avevo visto la tristezza di lasciarmi e mi era parsa reale, ma il silenzio tra noi era forte da mesi, il coraggio a mancarci nei gesti. Due uomini vecchi non si possono amare, pensavo. Ma lo amavo lo stesso. Che notte bizzarra, e triste.
"Ehi ciao", mi sorrise guardandomi.
"Ciao. Ben tornato tra noi" gli risposi.
"Che è successo?"
"Non lo sappiamo ancora, sei molto fortunato ad essere vivo, ti ho trovato sdraiato in un mare di sangue, accanto a una macchina aperta, la testa coperta di vetri".
"Sono vivo davvero".
"Sei vivo davvero", quel sorriso dolcissimo mi dava alla testa.
Due tipi un po' grossi lo presero e lo stesero in una barella, tutto il tempo mi fissò, tutto il tempo lo fissai, lo infilarono in una ambulanza bianca e lucida e mentre si stavano chiudendo le porte provai a entrare anche io, mi cacciarono via e lo sentii ridere, ridere. Appena le ruote sgommando lo allontanarono da me, d'istinto scoppiai in lacrime, non erano tristi però, erano la liberazione di un peso inatteso.
Dovevo calmarmi e così camminai senza meta fumando e guardando i passanti assonnati. Una vecchia battona mi prese in disparte e mi raccontò le avventure con i clienti più strani, "Un matto voleva scoparmi per strada di giorno" mi disse, "ti pago il doppio, mi diceva, ma ho una dignità e non l'ho fatto, ho una dignità io, e non l'ho fatto". Rideva anche lei raccontando, che notte bizzarra, prima triste e poi allegra.
Seduto in un panchina sfogliai distratto un quotidiano gratuito, mi incamminai per il quartiere a perdere tempo, non avevo sonno quella mattina. Poi accadde che sentii un urlo e un botto dietro l'angolo.
Arrivai e vidi la stessa persona due volte. Una donna bellissima sia morta che viva. Rimasi distante dei passi a guardare. La morta era stesa per terra col cranio spaccato, più in alto una finestra aperta raccontava il suo ultimo gesto. La viva era inginocchiata su di lei e piangeva pregando, ed era uguale, erano uguali, solo l'esistere ormai a dargli differenza. Mi avvicinai quando lei si voltò, il viso insozzato di lacrime a chiedere aiuto. M'immaginai nella sua condizione, a trovare nello specchio un cadavere. Che notte bizzarra, pensai, con il sole nascente a colpirmi la nuca.
Che notte bizzarra, prima triste poi allegra e poi triste di nuovo.

20 marzo 2008

A sua immagine e somiglianza

Eravamo uguali come gocce d'acqua, io e mia sorella. Tanto uguali da essere confuse l'una con l'altra. Le gemelle, ci chiamavano, quando eravamo vicine: per evitare ogni distinguo con annessa figuraccia. Eravamo due, anzi non due: ma una coppia.
Uguali fuori ma diverse dentro, come un baco rende una mela diversa da un'altra. Io devota e timorata di Dio, lei miscredente; io ballerina esigente e testarda, lei nullafacente; io sposata, lei fidanzata di un uomo di cui forse ignorava anche il nome. Non avevamo figli. Io per volontà di Dio, lei per volontà di un farmaco infernale.
Due volte squillò il telefono quella mattina, anzi non due: ma una coppia. La prima volta c'era la sua voce aldilà della cornetta. Era presto.
"Sto male", mi straziò con questo esordio giù dal letto.
"Cos'hai?"
"Sto male".
Psicofarmaci, prendeva. Prima erano uno al giorno, poi il doppio poi di più, tanti da non vedere mestruazioni ormai da anni.
"Stai tranquilla, ti prego".
"Era strano stanotte era strano e scandaloso".
"Ma di chi parli, di quel farabutto che ti porti a letto?"
"Era strano e poi poco fa mi ha chiamato ed io sapevo che c'era qualcosa che non andava".
"Stai tranquilla, ti prego stai tranquilla, stai tranquilla".
"E' un mostro, lo sapevo. Mi ha tolto tutto ed ora non ho niente".
La prima volta che feci una buona azione ero in terza media. Un mio compagno aveva un anellino d'oro all'orecchio sinistro, erano gli anni in cui quella moda sconveniente stava prendendo piede. Io lo convinsi a toglierlo per un mese in cambio dei compiti di matematica. Scaduto il tempo si dimenticò di rimetterlo, ma io non dissi nulla.
"Spiegami meglio, cosa è successo?", dissi.
Poi lo rividi un anno dopo, aveva tre orecchini di cui uno al naso. Fu allora che compresi che una buona azione funziona solo quando è onesta non solo negli intenti, ma anche nelle modalità. Dio è misericordioso con i misericordiosi, è giusto con i giusti, è buono con i buoni.
"Mi ha chiamato poco fa dicendomi una cosa orribile".
"Cosa ti ha detto?"
Nell'estate tra il secondo e il terzo liceo cominciai il volontariato. Inizialmente aiutavo un po' la mensa in città, poi negli anni successivi cominciai a viaggiare in paesi poveri per dare un aiuto concreto. Dio è caritatevole con i caritatevoli.
"Mi ha detto una cosa orribile".
"Dimmi cosa, diamine!"
"Non urlarmi, sei la solita egoista".
L'estate della maturità andai due mesi in Brasile ad aiutare i bambini orfani. Tenere tra le mani più ossa che carne metteva i brividi. Fu lì che una sera ballando in un bar incontrai mio marito. Era un ballerino come me, ed ascoltava anche con gli occhi. Odiavamo ballare, entrambi. Ma eravamo bravi.
"Perdonami. Stai tranquilla però, te ne prego. Raccontami cosa ti ha detto".
"Non ce la faccio", la voce incrinata.
Lui venne con me lasciando tutto, il suo paese, il suo lavoro, la sua famiglia. Trovò lavoro come cameriere, e guadagnava bene.
"Ti prego...", sussurrai.
"Non ce la faccio", disse lei piangendo prima di riattaccare.
Due volte squillò il telefono quella mattina, anzi non due: ma una coppia. La seconda volta era mio marito, lo sapevo anche senza rispondere. E non risposi.
Perchè stavo correndo da lei.

19 marzo 2008

La voce afona

Odiavo ballare l'odiavo. Ma ero bravo.
Mio padre mi costringeva ad andare ogni sera in quella squallida palestra dove una vecchia fallita mi urlava di stare attento alla musica e di seguire il ritmo. Avovo dodici anni allora, e odiavo ballare l'odiavo; ma più di tutto detestavo quella musica incessante. Di nascosto mi infilavo un po' di ovatta bagnata nelle orecchie e mi isolavo dal mondo, le grida della vecchia a impigliarsi nel morbido filtro, la pace all'interno. Imparai così l'arte di leggere le labbra.
Interpretando insulti.
"Un cornetto integrale al miele", disse il ragazzo.
Mi colpì quella macchia rossa sul colletto, rossa come il sangue, ancora un poco fresca.
"Ecco a lei" risposi presto.
Difficile rimanere concentrati quando si ascolta anche con gli occhi. Ormai il lavoro qui come barista era affermato e collaudato, ma i problemi erano tanti, tanti i problemi. Mi bastavano due dolci innamorati al tavolino qua davanti per mancare ordinazioni e perder tempo, osservando i movimento della bocca mi mischiavo nella forza di quel sentimento allegro. E rallentavo sul lavoro. I problemi erano tanti, tanti i problemi, mi ripeteva il principale. E non c'è tempo nè denaro da sprecare, mi ripeteva il principale.
"Grazie mille", sussurrò quel tipo strano. Poi si allontanò lasciando dietro una nuvola di zucchero a velo, prese in mano il cellulare. Piangeva quando compose un numero piangeva e piangeva quando sussurrò con tono basso, soltanto le sue labbra mi parlarono, non le sue orecchie soltanto le sue labbra.
"Stanotte ho ucciso un uomo", e riattaccò. Piangeva.
Rimasi fermo immobile con due arance in mano e l'impazienza di un cliente a scongelarmi lentamente. Preparai quella spremuta e dissi al capo
"Esco un momento"; mi urlò forte qualche cosa lo ignorai.
Chiamai mia moglie a casa perchè lei avrebbe saputo cosa fare, ma non c'era. Lei non c'era e non sapevo dove fosse e quegli squilli vuoti e spenti non mi dissero di lei. Così ero da solo, l'unico a sapere che lì avanti c'era un pazzo assassino. Composi il numero della polizia e rimasi lì, col dito pronto, indeciso tra giusto e sbagliato.
Era una ballerina mia moglie. Odiava ballare l'odiava. Ma era brava.

18 marzo 2008

Il potere del male

Scandalosi i suoi modi quella notte.
Scandalosi i suoi gesti, scandalose le sue poche parole. Mi spogliò con la bocca impastata da un fiato pesante, mi appoggiò a un muro e mi voltò, le sue mani a spingere il mio viso contro la porta di legno della cucina. Mi prese da dietro, come mai aveva fatto prima. Sentii un dolore lancinante.
Durò poco, colò dentro di me le sue sporcizie senza sorridere mai. Nemmeno una volta.
"Ci vediamo un film?", sospirai rivestendomi.
"Sì" disse lui.
Soltanto: sì.
Sul divano abbracciata al suo petto finsi la normalità dei giorni scorsi, non ingannai nemmeno me. Era tardi quando uscì sbattendo forte la porta.
Le viscere continuavano a pulsare, la sua presenza ormai svanita a farmi male, e ancora male. Mi lavai a lungo sotto un'acqua bollente gelata. La tinsi di rosso, mi spaventai, ma non era niente. Niente di cui preoccuparsi, donna. Niente di cui preoccuparsi. Entrai nel letto alle cinque di notte con gli occhi più aperti di prima con il corpo più sporco di prima. Il sonno tardava ad arrivare eppure mi aspettava una giornata pesante. Pesante come tutte le giornate, ma con in più il grave sinistro della paura. Ancora non sapevo niente, allora. Che stolta.
Sfogliai qualche pagina di un libro troppo triste che parlava d'amore di mare e di uomini valorosi, mi mancavano tutte queste cose lo chiusi insoddisfatta. Finalmente un pensiero più forte degli altri mi prese con sè, trascinò la coscienza nel regno dei morti di sonno e così cominciai a sognare. Meglio prima, forse?
Sognai incubi assurdi pieni di dèmoni, di soldati con gli artigli e di bambini divorati dagli insetti. Sognai viscere in fiamme sognai, muri diroccati, soli neri. Infine sognai un buco e di caderci, mi svegliai quando il mio volto era già piatto al suolo. Un tonfo sordo come quello di un cranio spiaccicato mi svegliò.
Erano le sette e mezzo circa quando ormai dovetti alzarmi e andare in bagno per gettare basi solide al mio giorno. In cucina scaldai poco del caffè avanzato e amaro. Poi mi squillò il telefono ed ebbi paura. Era lui lo riconobbi nel contorno rumoroso di un bar a prima mattina. Risposi: pronto; molto piano, mi sentì o forse no. Ma parlò uguale.
"Stanotte ho ucciso un uomo", disse solo.
Piangeva o forse no.

17 marzo 2008

Molto rumore per nulla

Si fermò così, senza un rumore. Una Peugeot rossa, vecchio modello. Sporca.
"Posso aiutare?", dissi distratto.
Ne scese un ragazzo che ispirava fiducia. Biondo, faccia larga, sorridente e bello come il sole. Giovane. Tutto il contrario di me.
"La ringrazio molto, da solo non saprei da dove iniziare", mi squadrò titubante.
"E' un piacere giovanotto."
"Sicuro che non le faccio perdere troppo tempo?"
"Scherza?"
Avevo bevuto molto. Grappa. Lontano nel tempo, il ricordo di nottate di cui avessi il ricordo. Poi il vuoto e una bottiglia a sera. Disperazione. La chiamavo così: disperazione.
"Ecco guardi: quando provo a riaccendere esce tutto fumo dal motore. Non so, credo sia qualcosa legato al radiatore, ma io non ci capisco davvero nulla...", poi sorrise di un bianco accecante.
"Mm, mi faccia dare un'occhiata. Apra il cofano."
Quell'angelo era venuto per me, ed io dovevo aiutarlo per aiutarmi, dovevo salvarlo per salvarmi. Nel miscuglio nero e fermo di grasso e ingranaggi trovai lo specchio della mia condizione. Infilai le mani lì dentro e capii subito cosa non andava. L'avrei potuta riparare in un solo istante. Un movimento secco delle dita; ma lui era lì per me e non dovevo lasciarlo andare via.
"Ahia", esclamai. Finsi un bruciore, che pessima recita, per fortuna la platea era fredda e inanimata.
"Da dove viene lei?", parlare con lui dava un senso nuovo a tutto.
"Abito proprio qui vicino, stavo tornando dalla casa della mia ragazza quando mi si è spenta la macchina così, all'improvviso. Se non l'avessi incontrata non avrei saputo che fare".
"Non si preoccupi, ora risolvo tutto. Per fortuna me ne intendo di motori".
Chiusi gli occhi e pensai: ho bisogno di un segnale. Se fuma, è mio. E in quel momento percepii forte l'odore scuro di una sigaretta accesa. Salii in macchina accanto a lui.
"Quanti anni hai, ragazzo?", cercai di essere accomodante.
"Ventitre... E' dura lavorare a quest'ora, vero?"
"Abbastanza."
"Immagino."
"Ma a volte si fanno incontri molto fortunati, e il tempo passa via in un lampo".
"Sarà freddo ora il motore, che dice?", la sua voce incrinata da un tremito dolcissimo.
"Ancora un po', non vorrei bruciarmi di nuovo". E lo toccai.
Poi successe tutto in un lampo.
"Cosa sta facendo?", mi gridò.
"Niente, stai tranquillo, non ti farò del male", provai a tranquillizzarlo, volevo solo il suo bene, tutto il suo bene.
"Scenda subito dalla mia macchina!"
"Non urlare, io ti voglio bene", esclamai disperato.
Poi in un momento le sue mani mi arrivarono in faccia ed io non feci nulla per difendermi. Sentii un tonfo sonoro, un dolore lancinante alla nuca e poi più niente. Buio.
Buio.
Mi risvegliai circondato da sangue e infermieri imbavagliati, da una massa di curiosi, da un collega che urlava "E' vivo, è vivo!"; avevo fame.
Ero vivo.

16 marzo 2008

Perdite di tempo

"Posso aiutare?" disse un tipo sulla sessantina dai capelli neri lunghi e sporchi vestito con una tuta arancione da netturbino.
"La ringrazio molto, da solo non saprei da dove iniziare" risposi io, dopo una pausa di leggera esitazione.
"E' un piacere giovanotto."
"Sicuro che non le faccio perdere troppo tempo?"
"Scherza?"
Il sole tardava a sorgere quella mattina, erano le quattro e mezzo di una giornata di mezz'estate: ma di luce ancora non si vedeva l'ombra.
"Ecco guardi: quando provo a riaccendere esce tutto fumo dal motore. Non so, credo sia qualcosa legato al radiatore, ma io non ci capisco davvero nulla..."
"Mm, mi faccia dare un'occhiata. Apra il cofano."
Aprii il cofano. Il tipo infilò le sue mani grasse in mezzo ai tubi e agli ingranaggi, esclamò un "Ahia!" per una bruciatura, era ancora tutto troppo caldo.
"Da dove viene lei?", chiese per passare il tempo.
"Abito proprio qui vicino, stavo tornando dalla casa della mia ragazza quando mi si è spenta la macchina così, all'improvviso. Se non l'avessi incontrata non avrei saputo che fare"
"Non si preoccupi, ora risolvo tutto. Per fortuna me ne intendo di motori", mi sorrise. Di un sorriso strano.
Accesi una sigaretta, abbassai il finestrino. Il tipo sfilò un pacchetto di Marlboro dal taschino e ne prese una. Poi senza chiedermi nulla aprì lo sportello e si sedette nel sedile del passeggero, accanto a me.
"Quanti anni hai, ragazzo?", il passaggio dal 'lei' al 'tu' risuonò colmo di quella subdola minaccia propria di un vaso di fiori su un davanzale pericolante.
"Ventitre", non sapevo come continuare la risposta, mi mantenni vago. Così dissi: "E' dura lavorare a quest'ora, vero?"
"Abbastanza."
"Immagino"
"Ma a volte si fanno incontri molto fortunati, e il tempo passa via in un lampo."
Tirò una boccata di fumo lunga un giorno, la risputò lentamente verso me, una sottile canalina grigia a collegare la sua bocca con la mia.
"Sarà freddo ora il motore, che dice?", mi accorsi di un tremito nella voce, sperai non lo avesse notato.
"Ancora un po', non vorrei bruciarmi di nuovo".
Mi girai verso il finestrino continuando a fumare. Con la coda dell'occhio notai la sua mano spostarsi, la sentii arrivarmi sulla coscia e con un sussulto mi scansai.
"Cosa sta facendo?"
"Niente, stai tranquillo, non ti farò del male".
"Scenda subito dalla mia macchina", gridai.
"Shhh, non urlare, io ti voglio bene".
Cominciai a sudare freddo, le sue mani divennero insistenti e me le sentii ovunque. Gridai sempre più forte ma nessuno poteva sentirmi, ero nel mezzo di una sperduta stradina di periferia. Che zona di merda, pensai a mente lucida.
Poi di scatto presi tra le mani la testa del tizio e la spinsi con violenza sul finestrino, sentii un rumore sinistro e un rumore di vetri infranti e chiusi gli occhi continuando a spingere.
"Ave maria piena di grazia il signore è con te tu sei benedetta benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno gesù ave maria piena di grazia il signore è con te tu sei benedetta benedetta fra le donne e benedetto". E poi distesi i muscoli.
Quando riaprii gli occhi il tipo mi fissava immobile. Una lastra di vetro gli usciva dalla fronte, proprio nel mezzo.
Cominciai a piangere come un disperato, poi a ridere, poi di nuovo a piangere. Scesi dalla macchina lasciando tutto così, mi allontanai senza voltarmi indietro. Riuscii a lavarmi le mani e il viso a una fontanella per la strada, camminai per più di due ore senza fermarmi mai, arrivai in centro che stavano aprendo i primi negozi.
"Un cornetto integrale al miele", dissi al barista.
"Ecco a lei".
Ecco a me.