18 dicembre 2007

Saggio sulla lettura

E' facile distinguere, nell'atto cognitivo che accompagna tutti i processi di assorbimento intellettuale - tra i quali la lettura è senza dubbio la sovrana incontrastata portandosi dietro secoli e secoli di storia - dicevo, è facile distinguere in questo atto cognitivo due fasi distinte, complementari, e per questo necessarie l’una all’altra. Yin e Yang. Alla prima di queste, che chiamerei – mi spiegherò meglio a breve - ‘Atto dell’accettazione’, appartengono la gran parte dei procedimenti, passatemi il termine, più prettamente meccanici che accompagnano l’apprendimento. E capisco il vostro turbamento nel constatare quanto questa parola non si addica all’essenza filosofica che tutti voi vi aspettavate di ascoltare. Sappiate che sì, è vero, la fisica non è di certo materia che affronteremo in questa sede, ma le sue attinenze con il mondo che vi sto dischiudendo sono assai più numerose di quelle che, ne sono certo, la maggior parte di voi sospetta; vi prego perciò di ascoltarmi, tenendo a mente quanto ho detto. Nell’ ‘Atto dell’accettazione’ lo stimolo visivo che giunge all’occhio viene tradotto, più o meno lentamente, in parola. Attenzione, ricordate che in questo momento essa non riveste nessun ruolo se non quello di mucchio di lettere, grumo insoddisfacente di suoni articolabili, che spesso, anzi quasi sempre, per provocarvi una sorta di appagamento superfluo, effimero, e precedente all’atto ricettivo, fingerete mentalmente di pronunciare, come se solamente attraverso questo passaggio necessario quel grumo di parole possa elevarsi al suo stadio successivo di significante. Ecco quindi che la parola diventa linguaggio, quello che prima era soltanto lingua e bocca diventa albero, e pesce, e colore, e perfino sentimento. In questo preciso momento avviene l’accettazione, atto incondizionato di remissiva vergogna: la vostra mente, occupata nelle riflessioni precedenti, si svuota, in parte, per accogliere quel messaggio nuovo, quel linguaggio, appunto. Badate bene, nulla di ciò che state leggendo è stato ancora metabolizzato, non l’avete nemmeno capito - e a guardare dalle vostre facce così poco sveglie non sono nemmeno certo che li capirete mai – non avete nemmeno provato a capirlo: del resto sarebbe impossibile farlo, sarebbe pretendere l’effetto prima della causa. Semplicemente avete cancellato una parte della vostra memoria per accogliere, gesto di suprema arresa, un flusso intellettuale rispetto al quale non possedete nessuna garanzia. E’ incredibile come tutto questo accada in ogni momento, e come nessuno si sia mai ribellato a una simile vergogna: pensateci un istante, senza fretta. Non è diverso da qualcuno che, per accogliere uno sconosciuto che bussa alla porta, demolisca il suo salone per costruirci, al suo posto, un’accogliente stanza da letto per il nuovo arrivato, ancora prima di averlo fatto entrare o di averci mai parlato. Un totale abbandono delle proprie difese più intime. Semplicemente scandaloso. In questa fase dunque il linguaggio giunge al cervello, cancellando e rimpiazzando gran parte del contenuto ivi presente in precedenza. Non si preoccupa di niente, non salvaguarda le cose più importanti, non attua nessuna scelta: è come un Attila sinaptico, arriva e demolisce casualmente fino ad ottenere tutto lo spazio che desidera. E quando, finalmente, il flusso termina la sua fase distruttiva,adagiandosi negli spazi neuronali, sistemandosi comodo, trovando la posizione più consona, ecco allora che si trasforma nella sua forma più pura e rigorosa. Diventa altissimo, sboccia, e appare nella sostanza di qualcosa di assolutamente imprevedibile: un pensiero. In questa sua rinata espressione, il concetto letterario perde la bramosa ferocia che lo aveva caratterizzato fin quando era rimasto linguaggio, assumendo tutta un’altra dignità, elevandosi da umile esperienza sensitiva a concetto dal nobile lignaggio. Si conclude così l’ ‘Atto dell’accettazione’, con una carezza, dopo un pugno. E’ a questo punto che entra in gioco la seconda fase del processo cognitivo, la parte più misteriosa e più sensuale, quella che, a pensarci, tutt’oggi mi fa venire qualche brivido lungo la schiena. Io lo chiamo ‘Atto della fascinazione’. Mi piace a questo punto definire la parola secondo il suo significato in psicoanalisi: la fascinazione è quel procedimento tramite cui è possibile giungere a uno stato ipnotico, utilizzando mezzi elementari di suggestione o di condizionamento. Durante la lettura accade proprio questo: lo stadio mentale successivo alla formazione del pensiero puro non è altro che ipnosi sensitiva, è abbandono del comando, è remissione. Il concetto che è arrivato alla testa vuole essere assimilato e conservato, e così partecipa all’infinita lotta di sopravvivenza che permea le nostre menti da quando esse sono in grado di conoscere: è un gioco duro e delicato, senza seconde possibilità, e soprattutto senza arbitri. E’ soltanto leggenda senza verità l’idea che il filo conduttore del nostro cervello sia direzionabile; la realtà è ben altra, se potessimo fare qualcosa per indirizzare il nostro flusso cognitivo è probabile che lo condurremmo da tutte altre parti, in luoghi, probabilmente, più felici e quieti. Invece la direzione che la mente desidera intraprendere conduce, inesorabilmente, verso un campo di battaglia, Waterloo dei nostri sensi: è qui che il pensiero puro si mescola ad altri pensieri, non meno puri, non meno potenti. Ed affila le lame di cui dispone per sopravvivere. Se necessario uccide i suoi simili, non esiste pena né pietà né tolleranza in questa guerra, il concetto non demorde fin quando non ottiene il suo scopo, a meno che non venga, a sua volta, annientato da un altro pensiero, più potente o più scaltro. Se è fortunato, perciò, il concetto si fossilizza, passa rapidamente nella sua essenza di archetipo per poi assumere la sua colorazione ultima, definitiva, e più autorevole: diventa memoria. Solo ora, in questo corpo duraturo e solido, ecco, soltanto ora quel verso di poesia, o quella riga di romanzo, possono davvero essere comprese. Solamente sostenute da un meccanismo perenne le idee possono poi venire accolte anche dai sensi, arrivando, addirittura, ad emozionare. E’ la fascinazione, appunto: il momento in cui non siamo più in grado di dominare nemmeno il nostro lato più istintivo e sensoriale, il momento in cui doniamo i nostri sentimenti alla penna lontana di qualcuno che non è nemmeno accanto a noi. E così ci commuoviamo, o ridiamo, o ci arrabbiamo: per una tragedia che non è nostra, per una battuta che non rivolgono a noi, per una lite tra persone che non ci conoscono. Assurdo, a pensarci bene, no? Che la distanza si annulli a tal punto da raggiungere i nostri interni, ed arrivare dove nemmeno noi stessi siamo in grado di arrivare. Non possiamo commuoverci da soli, o emozionarci da soli: eppure un romanzo può, e una poesia, addirittura, deve. Soltanto dopo, a posteriori, riprendiamo il controllo e, quasi imbarazzati, continuiamo a leggere. Ma con gli occhi ci capiterà di tornare a quel verso che ha vinto, a quella parola che ha fatto breccia nei nostri scudi: la confronteremo con la nostra memoria, e ne troveremo una uguale. Non l’abbiamo messa noi, lì, e per questo ci sorprenderà. Ci sconvolgerà, e ci farà godere, anche soltanto per un attimo. Allora, soddisfatti, capiremo che è il momento di inserire il segnalibro; la storia continuerà, forse domani.