24 maggio 2008

Plastica

Non sono preparato al vento che mi entra nelle ossa appena apro la portiera della macchina. Fa un freddo cane e ho soltanto un maglioncino leggero. È nero con delle righe sottili viola, rosa e bianche, che si ripetono a gruppi di tre. Arriva fino alla vita e ho i fianchi scoperti. Dal collo spunta una camicia di raso blu notte. Così conciato potrei entrare in qualsiasi club di Las Vegas.
“Sai, ti vedo proprio cambiato, sotto un sacco di aspetti”, dice Beth.
Evito di guardarla. So perfettamente di cosa vorrebbe parlare. La brezza gelata continua ad arrivarmi addosso, come se fosse sparata da un enorme ventilatore universale.
“Hai presente la teoria del caos?”, chiedo.
“Beh?”
Mi chino ad allacciare la scarpa sinistra.
“Quella per cui se una coccinella vola in Nicaragua e si posa su una scimmia, allora la scimmia si gratta e fa scappare una pulce che va da un’altra scimmia che si lascia scappare un pesce nel fiume, e alla fine uno squalo divora un bambino che altrimenti sarebbe diventato il prossimo presidente degli Stati Uniti?”
Beth mi lancia un’occhiata di disprezzo.
“Ci sono coccinelle, in Nicaragua?”
“Cretina dico sul serio. È la teoria per cui eventi apparentemente simili possono evolvere in modi completamente diversi e imprevedibili.”
“Capisco.”
Non capisce.
“Sto soltanto studiando la mia evoluzione. Non sono cambiato.”
I lacci non vogliono rimanere al loro posto e continuano a penzolare ai lati della scarpa. Li lascio lì, a strusciare per terra come vermi.
“E cosa hai scoperto, sentiamo, studiando la tua evoluzione?”. Beth pronuncia queste ultime parole imitando la mia voce, attribuendole però un timbro epico e distinto che io avevo accuratamente evitato di usare.
“Ho scoperto di essere bravo ad allontanare le cose da me.”
Dalla spiaggia, in lontananza, si sente una versione remixata di Toxic. Camminiamo sul marciapiede buio, attenti ad evitare le buche e le gomme da masticare buttate per terra. Inizio a canticchiare a voce bassissima, Beth mi segue subito e fischietta la base. Senza scambiarci più neanche una parola ci muoviamo verso la direzione da cui proviene la musica. Britney Spears è la nostra guida.
Adam non sembra affatto contento di vederci arrivare alla sua festa. Non sembra nemmeno scocciato. Semplicemente, prende atto del nostro arrivo.
“Benvenuti!”, esclama, con un sorriso da manifesto elettorale.
Lo abbraccio, ha un profumo dolcissimo, sa di qualcosa di maledettamente buono. Annuso ancora e capisco. Pesca sciroppata.
Quest’uomo sa di pesca sciroppata.
Do un occhiata in giro, sono già tutti lì, saranno trenta persone. Sulla spiaggia c’è un lungo tavolo pieno di bottiglie mezze piene e di pacchi aperti di ogni genere di snack. Due casse alte quanto un bambino sparano musica a palla, collegate a un filo elettrico nero che si inoltra nella notte, chissà dove, verso la strada. Due faretti da discoteca, uno verde e uno rosso, sono l’unica fonte di illuminazione della festa.
La serata trascorre così: io e Beth camminiamo vicini da una parte all’altra del tavolino, irrequieti e nevrotici come atleti il giorno prima di una gara. Non c’è niente da fare, a parte ascoltare gli aneddoti stravaganti raccontati dagli altri invitati per intrattenere prima di tutto loro stessi e poi noi. Cerco un modo costruttivo per impiegare il tempo. Bevo.
“Tempo fa alla tv avevo visto un documentario sugli effetti dell’alcool nel cervello”, dico a Beth. Sono le prime parole che ci scambiamo da due ore. Mi risponde con un’occhiata strana, io bevo in fretta un vodka-lemon, non mi lascio intimorire e vado avanti. “Le molecole di alcool ti fanno aumentare la dopamina nel sangue, che è il motivo per cui sballi e non ci capisci un cazzo.”
Mi faccio un altro vodka-lemon. Questa volta metto quasi solo vodka.
Dico: “Mi sembra che il termine tecnico sia disinibizione comportamentale. Sarebbe a dire che fai figure di merda in continuazione.” Beth continua a ignorarmi, faccio finta di niente.
Comincio a sentire caldo e sento le braccia formicolare un po’. Forse dovrei bere qualcosa. In quel mare di alcolici individuo il gin, è così trasparente, non può mica farmi male. Non è come la coca-cola, piena di coloranti. Prendo tutta la bottiglia.
“E?”, dice finalmente Beth.
Giro lo sguardo sulla spiaggia, fisso ognuno degli ospiti dritto negli occhi. Compreso me. Tecnicamente sarebbe impossibile, ma non mi lascio impressionare. In questo momento ho altro a cui pensare.
“E cosa?”, fisso anche lei.
Me la ricordavo più magra. Sembra grassa. E ha le tette enormi.
“Non hai altro da dirmi?”
Vorrei dirle di sì, credo di sì. Vorrei dirle: sei una brutta stronza. Non capisci un cazzo. Io sto male e tu non capisci un cazzo. Per di più sei obesa e hai le tette enormi. Vorrei dirle tutto questo e invece mi allontano senza nemmeno risponderle. La bottiglia che stringo nella mano destra diventa sempre più leggera.
Trovo qualcuno con cui parlare. Un tipo che fa l’editor di musica classica in una casa discografica. Un certo Manolo. Nome bizzarro, tant’è che quando si presenta scoppio a ridere. Provo una certa soddisfazione nel mostrare la mia cultura immensa, ma poi la pietà prende il sopravvento e lascio Manolo al suo triste destino. È tardi. Devo andare via.
Prendo le mie cose, che non ho. Non prendo niente. “Andiamo”, dico a Beth.
“Dove?”
“A casa.”
“Ma sei pazzo?”, mi guarda come se fossi pazzo. “Rimaniamo a dormire qui, imbecille.”
Non riesce davvero a capire. Meravigliosa idiozia. Ora basta, le sto dando fin troppe possibilità.
“Io vado.”
“Dove pensi di andare in questo stato? Sei ubriachissimo.”
“Sto bene.”
“Fai come ti pare.”
Ispiro lentamente. Vorrei afferrarla e sbatterla sulla spiaggia e sotterrarla con la sabbia fino a lasciarle scoperto soltanto un orecchio per urlarci dentro certo che faccio come mi pare troia che non sei altro. Invece prendo un bicchiere, lo riempio di birra, lo bevo senza smettere mai. Finché non rimane che plastica.

21 maggio 2008

Crepes

“Più veloce, forza, più veloce!”
Ho paura di scivolare mentre spingo la carrozzina sul parquet correndo da una parte all’altra del salone. Toph ride come un pazzo e mi incita, neanche fossi un cane da corsa. Evito all’ultimo secondo la libreria accanto alla cucina, poi curvo rapidamente appena prima dello stipite della porta tenendo la carrozzina in equilibrio su una ruota sola, scatto nel corridoio accanto alla tavola apparecchiata e per lo spostamento d’aria faccio volare via un tovagliolo di carta. Mi fermo soltanto quando i piedi di Toph sono a pochi centimetri dal divano. Sono bagnato di sudore, questo affare pesa un accidente.
“Che figata”, strilla lui con voce singhiozzante.
Tira su col naso e inarca le sopracciglia mettendole in quella posizione a V rovesciata che ogni volta mi fa morire dal ridere.
“Siamo i campioni dell’universo”, esclamo, intervallando le risate con ansimi di fatica.
Lo penso sul serio.
Raccolgo il tovagliolo da terra e lo rimetto sul tavolo, fischiettando faccio segno a Toph di non dire niente a mamma. Lui sbotta a ridere di nuovo.
Mia madre sta preparando qualcosa di strano, un fumo acre e pungente passa sotto la porta chiusa della cucina e arriva fino in salone. Nel frattempo canticchia Sunday Bloody Sunday con il suo timbro acuto e stridulo. Stamattina è insolitamente felice.
“Lo rifacciamo?”, Topher mi guarda con interesse.
Mi lascio cadere a peso morto sul divano fingendo di aver completamente perso le forze.
“No, sono distrutto Toph”, dico. “Ora mangiamo.”
Il suo viso sembra rabbuiarsi, cambia espressione con quel modo che ha lui di evitare le gradazioni intermedie, con un passaggio discreto e repentino.
“Non ho fame”, dice, ma sta palesemente pensando ad altro.
Allungo una mano ad afferrare una rivista abbandonata sul divano da mia madre, uno di quei periodici di carta patinata pieni di pubblicità di alta moda e di articoli assolutamente superflui. Scorro le pagine con disinteresse, sento lo sguardo di Toph sulle mie dita. Mi sorprendo a chiedermi per quanto ancora, in casa, varrà il tacito accordo di non riferirsi mai alla sua infermità.
“È pronto!”, urla mia madre da dietro la porta. “Qualcuno mi aiuta ad uscire?”
Io e Toph ci guardiamo un istante, poi mi sollevo a fatica. Un tempo avremmo litigato dieci minuti su chi dei due si sarebbe dovuto alzare per andare ad aiutarla.
Apro la porta e dalla cucina appare mia madre, con un canovaccio marroncino annodato intorno alla vita e una teglia in mano, circondata da una nuvola di fumo grasso e odoroso. Sembra l’ingresso pirotecnico di una pop-star ad un concerto estivo.
“Crepes con salmone e vodka”, esclama soddisfatta. Sorride scoprendo un numero incredibile di denti.
Toph mi guarda allibito, rispondo con uno sguardo altrettanto esterrefatto. Mia madre non ha mai voglia di cucinare. In questa casa sta succedendo qualcosa.
“Cosa fai lì imbambolato, aiutami a fare i piatti, su.”
È difficile sollevare le crepes dalla teglia senza romperle. Faccio un macello, ne rompo una e spargo tutto il ripieno sulla tovaglia, poi mia madre si alza di scatto, mi toglie il cucchiaio senza dire niente e mi fa segno di sedermi. Nelle sue mani sembra un’operazione semplicissima. Fa dei piatti perfetti.
“Vieni con noi al parco oggi?”, mi chiede Toph. “C’è la finale del torneo estivo di calcetto.”
Le crepes sono davvero buone, forse un po’ troppo cotte sul fondo.
“Siamo alla fine di settembre, che torneo estivo è?”
“Mica le decido io le date”, mi fa cenno con la testa di dargli un boccone. “Insomma vieni o no?”
Prendo con la forchetta un pezzo enorme di crepe e imbocco Toph stando attento a non sporcargli la maglia. Mentre mastica mi prendo un po’ di tempo per pensare.
“Non posso”, dico. “Devo andare da Beth.”
Bevo un lungo sorso d’acqua. Mi lecco le labbra.
“Che devi fare?”, chiede mia madre. “Potresti stare un po’ con la tua famiglia.”
“Cose zozze!”, urla Toph. Poi mi guarda, “dammene ancora.”
Lo imbocco di nuovo. Questa volta una cucchiaiata di sugo gli cola sui pantaloni. Non se ne accorge.
“Dobbiamo preparare i cd per la festa di stasera”, dico io.
“Smettila di dire cretinate Toph”, ribatte mia madre con sguardo irritato. Si gira verso di me, “e stasera che festa è? Ogni giorno una nuova.”
“È il compleanno di Adam, mamma”, dico rassegnato. “Fa la festa sulla spiaggia.”
Toph si guarda i pantaloni e scopre la macchia. Comincia a lamentarsi, in quel modo fastidioso che ha lui di attirare l’attenzione. “Ma che hai fatto, puliscimi, svelto prima che non se ne vada più!”
Strofino con un fazzoletto e faccio peggio, la macchia si spande su tutta la coscia.
“Una sera a casa mai eh?”, commenta mamma guardandomi.
“Guarda che disastro!”, urla Toph.
“Sto sempre a casa”, sostengo io.
“Non farmi ridere”, alza la voce lei.
“Che schifo!”, continua Toph.
“Non sono più un bambino, mamma!”, urlo.
“Piantala Toph”, afferma mia madre.
“Ma è colpa sua!”, strilla lui.
“E tu fai qualcosa no? Possibile che non sai fare niente?”, mi guarda arrabbiata.
“Ci sto provando, cazzo!”
“Non usare queste parole davanti a tuo fratello!”, si agita lei.
“Cazzo cazzo cazzo! Se lo dice lui lo dico pure io.”
“Toph guarda che ti do uno schiaffo, smettila subito.”
“Io devo andare.”
“Ma bravo, che famiglia unita, dai il buon esempio a tuo fratello.”
“Cazzo cazzo cazzo cazzo.”
“Ma cosa stai dicendo. Non siamo più un famiglia lo vuoi capire o no?”
“Cazzo cazzo cazzo.”
“Toph piantala subito!”
“Non si può essere una famiglia a metà.”
“Stai dicendo delle cose orribili.”
“Cazzo cazzo cazzo cazzo cazzo.”
“Delle cose orribili.”
Poi mamma scoppia a piangere.
Stringe la testa tra le mani, posa i gomiti sul tavolo e scoppia a piangere. Rimane così, immobile, con gli occhi umidi e rivolti verso il basso, sussultando per i singhiozzi interrotti ogni tanto da un respiro profondo. Piange per dieci minuti senza fermarsi mai. Io e Toph rimaniamo muti, guardando altrove, incrociando gli sguardi soltanto per brevi momenti. Ci vergogniamo entrambi.
Mamma si alza in piedi ed entra in cucina. Ne esce dopo qualche secondo con un fazzoletto di carta in mano, si strofina il contorno degli occhi con gesti delicati e secchi, come per non rovinare un trucco che non ha. Guarda entrambi in religioso silenzio. Si siede e prende in mano la forchetta. Prende un pezzo di crepe, si ferma un istante prima di portarlo alla bocca.
“Vi piacciono?”, chiede.