30 settembre 2008

E poi?




E poi?

28 settembre 2008

Domani.

Domani mi laureo.










Domani mi laureo.

27 settembre 2008

2008? [updated 3]

Bloc Party - Intimacy.

Coldplay - Viva la vida.

Snow Patrol - A hundred million suns.

Elbow - The seldom seen kid.

Keane - Perfect Symmetry.

The Killers - Day and age.

Death cab for cutie - Narrow stairs.

The Verve - Forth.

Oasis - Dig out your soul.

The Raveonettes - Lust lust lust.

Sigur Ròs - Með suð í eyrum við spilum endalaust.

Moby - Last night.

R.E.M. - Accelerate.

Travis - Ode to j. smith

Razorlight - Slipway fires

The Dears - Missiles

Fall Out Boy - Folie à Deux

dEUS - Vantage point

[update in progress...]

24 settembre 2008

Ma quando viene sera

21 settembre 2008

I just can't stop



Come Closer.

14 settembre 2008

Foster Wallace

Lo scrittore americano David Foster Wallace è stato trovato morto impiccato dalla moglie nella sua abitazione di Claremont, in California, alle 21.30 del 12 settembre 2008.
Questo è quello che lui stesso scriveva, nel suo capolavoro assoluto, Infinite Jest.

"La persona che ha una così detta depressione psicotica e cerca di uccidersi, non lo fa aperte le virgolette "per sfiducia" o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l'invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un'occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l'altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano "No!" e "Aspetta!" riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta."






Mi fermo un momento per lui, in un istante di immenso cordoglio.

12 settembre 2008

Odi et amo

10 settembre 2008

Mercury Prize



L'album più bello del 2008 ha vinto il mercury 2008.
Raro esempio di meritocrazia.

07 settembre 2008

D. O.

Alle due e cinque di pomeriggio di un ventiquattro agosto particolarmente caldo Diane Olsen si svegliò con la maglietta zuppa di sudore e un paio di short rosa macchiati di cioccolato sulla gamba sinistra. Diane socchiuse gli occhi con un’espressione contrariata sul viso, distese le braccia verso l’alto muovendo il lenzuolo su e giù nel tentativo di far passare un po’ d’aria e poi rimase immobile a fissare il soffitto. La luce filtrava dalle persiane spalancate e le arrivava dritta in faccia, ma lei non si lasciò scoraggiare. Si sforzò a lungo di trovare una posizione comoda per continuare a dormire, provò a girarsi di schiena ma non riusciva a respirare e sentiva troppo caldo, provò a mettersi su un fianco ma in quella posizione non riusciva a prendere sonno, finché alla fine dovette ammettere a se stessa che l’unica alternativa seria che le si parava davanti consisteva nell’alzarsi dal letto e chiudere la persiana.
Diane Olsen si trascinò a fatica fino al bordo del materasso, si mise a sedere sul letto con le gambe incrociate e iniziò a imprecare tra sé e sé. Mentre continuava a bestemmiare, sforzandosi di mettere a fuoco le forme intorno a lei, le venne all’improvviso in mente il sogno che aveva fatto appena prima di aprire gli occhi. Aveva in testa diverse figure sfocate, il ricordo era molto confuso, ma concentrandosi molto Diane riuscì a distinguere alcuni dettagli. In quel flusso indistinto di immagini c’era lei che camminava in un bosco freddo e innevato, le sue orme a perdersi nell’oscurità alle sue spalle. Poi c’era un bicchiere di limonata pieno fino all’orlo, Diane lo stringeva nella mano destra e tentava di mantenere l’equilibrio in modo da non farne cadere nemmeno una goccia mentre si muoveva goffamente nella neve fresca tra gli alberi. Nel sogno quella limonata era davvero importante, Diane ricordava distintamente di averla rubata a qualcuno e sapeva anche che quel qualcuno la stava inseguendo per riprendersela. Non riusciva a ricordare cosa ci fosse di così fondamentale in un bicchiere di limonata, ma quell’inseguimento era davvero troppo stressante e così alla fine si era svegliata, zuppa di sudore.
Con movimenti lentissimi, dettati dalla stanchezza, dal caldo e dallo sconforto, Diane riuscì ad allungare le gambe in modo da stenderle fino al pavimento. Il contatto delle dita con il marmo freddo le provocò un piccolo brivido di piacere, si allungò ancora fino a toccare il suolo con tutta la palma dei piedi, e così dopo qualche istante smise finalmente di bestemmiare. Sollevò lo sguardo fino alla finestra e guardò fuori fino al palazzo di fronte, i panni stesi ad asciugare nei terrazzi indugiavano immobili, appesi ai fili di plastica, senza neanche un filo di vento a incresparli e a farli dondolare. Non sembravano esserci segni di vita umana da nessuna parte. In effetti era una giornata davvero afosa e Diane Olsen stava morendo di caldo, ed è per questo che in quel momento decise di rinunciare definitivamente a dormire, tese i muscoli delle braccia per darsi una spinta e si alzò in piedi.
Appena si mise in posizione eretta fu colta da un piccolo calo di pressione, le si offuscò la vista e dovette appoggiarsi al muro per non perdere l’equilibrio. Prese un lungo respiro, rimase immobile qualche secondo e aspettò che il giramento di testa le passasse. Si sentiva debole e aveva fame. Inoltre percepiva distintamente l’odore di limonata ancora nell’aria, e desiderava averne un bicchiere ghiacciato con tutta se stessa. Diane sapeva perfettamente che nel frigorifero non c’era nulla di lontanamente simile a una limonata ghiacciata, ma con un po’ di fortuna avrebbe potuto trovare una Coca Cola o una Sprite. Il padrone di casa amava le bevande gassate e praticamente non beveva altro. Diane camminò strascicando i piedi nudi sul pavimento fino alla porta della sua stanza, prima di uscire lanciò un’occhiata alla sua figura riflessa nello specchio sopra alla scrivania. Vide una ragazza decisamente troppo magra, con la faccia scavata e un po’ di trucco residuo intorno agli occhi. Scosse la testa e guardò la radiosveglia, spalancò gli occhi per lo stupore. Non si era accorta di quanto fosse tardi.
È per tutti questi motivi che alle due e ventisette di pomeriggio del ventiquattro agosto Diane Olsen uscì dalla sua stanza indossando soltanto una maglietta zuppa di sudore e un paio di short rosa macchiati di cioccolato sulla gamba sinistra.
Il corridoio era inondato di una luce bianca e fortissima e per non rimanere accecata dovette socchiudere gli occhi. Diane si mosse lentamente sul parquet sporco e scricchiolante, stando ben attenta ad evitare i listelli più sconnessi in modo da non fare troppo rumore. I suoi occhi si posarono per l’ennesima volta sui quadri appesi in serie nel breve pezzo di muro bianco prima della porta del bagno. Vi erano rappresentate le divise da guerra di tutti gli eserciti più famosi della storia. Il padrone di casa era un fanatico di cultura militare e l’appartamento era pieno di riferimenti, più o meno velati, a questa sua grande passione. Diane continuò a camminare passando in rassegna le cornici una dopo l’altra, si soffermò qualche secondo in più davanti alla sua preferita. Era quella che raffigurava la tenuta d’ordinanza dei marescialli francesi durante il periodo napoleonico. Ciò che maggiormente la impressionava non era la sfarzosa decorazione di foglie di quercia in oro ricamate sulla divisa, partendo dal petto fino ad arrivare alle code della giacca e nel rovescio delle maniche; piuttosto Diane era colpita dalla particolare espressione che il ritrattista aveva colto sul viso di quel militare e fissato con la matita sulla carta. In effetti un occhio attento poteva notare senza difficoltà che, fra tutti i soldati ritratti in quella serie di piccoli quadri, il maresciallo francese dell’impero napoleonico era l’unico che stava ridendo.
Diane entrò in bagno per fare pipì senza chiudere a chiave la porta. Il padrone di casa era certamente uscito parecchie ore prima per andare a lavoro, e lei era sicura di essere rimasta sola nell’appartamento. Per questo motivo non si preoccupò, una volta soddisfatto il suo bisogno fisiologico, di occupare la stanza per più di mezzora con lo scopo di pulirsi il trucco dal viso e di definire le sopracciglia con le pinzette. Lo specchio rotondo fissato alla parete ingigantiva i dettagli in maniera mostruosa e permetteva di osservare le più piccole imperfezioni della pelle con crudele accuratezza. Diane pensò per l’ennesima volta che era l’ora di comprare un trattamento specifico per mandare via un po’ di brufoli, ma in cuor suo sapeva perfettamente che se ne sarebbe dimenticata anche oggi, come sempre, nel giro di pochi minuti. Quando uscì dal bagno erano ormai le tre di pomeriggio passate.
Diane sentì il suo stomaco mormorare rumorosamente per la fame e pensò che era arrivata l’ora di mangiare qualcosa, perciò si diresse verso la cucina. Dopo qualche passo però si fermò con un’espressione sorpresa sul viso, si chiese tra sé e sé come mai la porta di vetro oscurato della cucina fosse chiusa. Il padrone di casa aveva, tra le varie fissazioni che accompagnavano ogni suo movimento, anche quella di lasciare spalancate tutte le possibili aperture dell’appartamento. Diceva che in questo modo era impossibile nascondersi qualcosa, e sosteneva con convinzione che la sincerità e l’onestà fossero requisiti essenziali per una convivenza sana e orientata al bene comune. Diane aveva faticato non poco ad abituarsi a quella regola strana, le cui uniche eccezioni riguardavano la porta del bagno e, soltanto durante le ore di sonno, quella della sua stanza. Per questo rimase assai stupita, per non dire contrariata, nel trovare quel pomeriggio la porta di vetro oscurato della cucina completamente chiusa. Diane aprì la porta con uno scatto di prepotenza, quasi volesse affermare lei stessa che quel movimento era il concretizzarsi di una regola importante, e che nessuno poteva in nessun modo permettersi di infrangerla. Ma Diane dovette convenire subito dopo che non era l’ira, ma piuttosto altro stupore, il sentimento più adatto a quei frangenti. In effetti la situazione era assai strana. Davanti a lei c’era uno sconosciuto, a petto nudo, in piedi davanti al frigorifero, con un cartone di latte in mano.

06 settembre 2008

Uohooohouou



They're back.

05 settembre 2008

Before you take my heart...

Reconsider:

03 settembre 2008

La canzone più bella del mondo.

Era il 1996, e cinque ragazzi provenienti da Glasgow, membri dei Supernaturals, una band semisconosciuta perfino nella scena indipendente britannica, scrissero e pubblicarono una canzone intitolata "Smile". Il singolo floppò clamorosamente, fu ripubblicato qualche anno dopo nella speranzsa di ricevere un successo maggiore, accompagnato da un video dalla fotografia dark e dalla trama troppo banale, sparito dalla circolazione dopo pochissimo tempo, non riuscì mai a sfondare in televisione. I Supernaturals non raggiunsero il successo sperato, la band pubblicò qualche album, trovò un po' di spazio nelle posizioni basse delle classifiche inglesi, e si sciolse dopo alcuni anni nell'indifferenza generale.
Chissà se sapevano, quei cinque ragazzi, di aver scritto la canzone più bella del mondo.
Il video è perduto nell'oblio. Questo è un fan-made.
Perché non siamo soli. :-)




01 settembre 2008

30 agosto 2008

Tonight’s the night





bye.

12 agosto 2008

Made me cry.




Let us make amends
We're not overly good friends
But it's not heaven without you

You can have it all
We'll see mountains fall
But it's not heaven without you

Let us make amends
We're not overly good friends
But its not heaven without you

You can have it all
We'll see mountains fall
But its not heaven without you

It's a symphony distorting
When we're not talking
But its not heaven without you

And I'm not burning benches
'Cause the ash will make me choke
It was me who always spluttered
Every time we spoke
You can have it all

There's just something different
With the air about you
The signs, the shapes, the numbers
Then give me a clue
You can have it all

And I'm not burning benches
'Cause the ash will make me choke
It was me who always spluttered
Every time we spoke
You can have it all

02 agosto 2008

vlv



The best attempt ever made to make my days feel better.

24 luglio 2008

Schianto

“Ascolta”, dice Beth. “C’è un tipo che ama alla follia una tipa. Questa qui è il genere di ragazza mostruosamente bella, occhi chiari, capelli lunghi e mossi, fianchi sottili, curve definite.”

Stiamo passeggiando per le vie del centro fianco a fianco, ma io oggi non ho affatto voglia di parlare. Ho soltanto voglia di fumare. Ci fermiamo davanti a un bar, protetti da una veranda rossa che pubblicizza la Coca Cola. Mi appoggio al muro e sospiro forte, infreddolito e affaticato.

“Uno schianto”, dico.

“Uno schianto.” Beth strofina le mani tra loro, stringe le braccia sul petto. “Il tipo invece non è niente di che, lavora in un bar come cameriere ed ha anche un piccolo difetto di pronuncia, per cui ogni tanto inizia a balbettare e si perde per strada alcune parole in mezzo alle frasi.”

Guardo il bianco umido che cade dal cielo oltre la veranda, sotto forma di fiocchi piccoli, freddi, ghiacciati.

Sta nevicando.

“Non capisco Beth”, dico. “È una barzelletta?”

Un camion passa lungo la strada, lascia dietro di sé due tracce nere nel grigio chiaro che ricopre l’asfalto. Beth fissa l’aria e la neve, il suo sguardo è così intenso da far tremare le vetrine. Tremo anch’io.

“I due si conoscono perché la tipa va ogni mattina a fare colazione nel bar dove lavora il tipo, e lui si innamora di lei nell’esatto istante in cui la vede per la prima volta.”

“Colpo di fulmine?”

“Sì.”

Allungo una mano oltre la veranda e lascio che alcuni fiocchi mi tocchino il palmo. Li osservo da vicino, mentre si sciolgono bagnandomi le dita, trasformandosi in goccioline sottili e trasparenti. “Non ti seguo”, dico. Scuoto le dita per schizzarle la faccia.

“Il tipo ovviamente non fa altro che pensare alla tipa mostruosamente bella, ogni sera torna a casa dal bar e aspetta che arrivi la mattina dopo per poterla vedere di nuovo.” Beth si asciuga il viso e scuote la testa. “Solo che non trova il coraggio per rivelarle quello che prova, e per un po’ di mesi rimane così, in silenzio, a prepararle il caffellatte senza mai dirle una sola parola.”

“È una barzelletta.”

“Poi una sera decide di fare il grande passo e dichiarare il suo amore. Si prepara davanti allo specchio, ripete quella frase mille volte, cercando la sfumatura adatta, pesando ogni parola, sono mesi che non penso ad altro che a te, ti voglio soltanto dire che ti amo da morire, e basta”, Beth intona la voce dandole un’impostazione autoritaria, decisa, esclusiva. “Il cameriere sa bene che non può sbagliare.”

La neve cade sempre più fitta, confinandoci in quello spazio minuscolo. Mi muovo fino a raggiungere la parete invisibile che separa l’aria sgombra dal ghiaccio.

“Così il mattino dopo il tipo si spruzza il profumo, si sistema i capelli e arriva al lavoro mezzora prima”, continua. “Sussulta ad ogni cliente che entra nel bar, ogni volta abbassa lo sguardo deluso che non sia il suo amore. E poi, finalmente la vede entrare, mostruosamente bella, con il suo portamento eccezionale.” Beth mima la scena con le mani. “La tipa ordina il solito caffellatte, lo beve tutto in un sorso, si mette la borsa sulle spalle e sta proprio per andare via quando il tipo le posa una mano sul fianco e la fissa negli occhi. Lei ovviamente non capisce e rimane così, un po’ spaventata, senza sapere cosa fare. Vorrebbe dire qualcosa, vorrebbe chiedere se è tutto a posto, ma non fa in tempo a parlare perché sente il cameriere sussultare.” Beth si ferma in una pausa molto teatrale. Guarda il cielo. “La ragazza sente il tipo esclamare ad alta voce: sono mesi che ti voglio da morire, e basta.

Scoppio a ridere. “Alla faccia del perdersi qualche parola”, esclamo.

Beth mi azzittisce con gli occhi e con un dito vicino al naso. Smetto subito. Non devo ridere. Non è una barzelletta.

“Come pensi che abbia reagito la ragazza?”, mi chiede Beth. È la domanda più importante del mondo.

Allungo ancora la mano oltre la veranda per raccogliere un po’ di neve. Questa volta mi fermo a lungo. Dopo qualche istante mi accorgo che in realtà il ghiaccio è molto meno freddo di quanto sembri. Aspetto finché la mano diventa completamente bianca. Poi parlo.

“Lo bacia”, dico.

Beth si gira di scatto. Mi guarda, si illumina di un sorriso che non vedevo da tanto tempo.

Annuisce. “Lo ama.”

Ritiro il braccio, passo la neve tra un palmo e l’altro a formare una palla compatta e precisa. Soppeso quel mucchio di neve con la mano. Ho una voglia pazza di una sigaretta.

“Torno subito”, le dico ad occhi bassi.

Muovo qualche passo sotto la neve, la sento penetrarmi nel collo e raffreddarmi la pelle.

“Guarda che lo so”, mi risponde Beth. “È inutile che vai a nasconderti da qualche parte.”

Mi fermo, alzo lo sguardo su di lei, torno rapidamente sotto la veranda.

“So che hai ricominciato a fumare”, dice lei con aria indifferente. “Quella roba uccide, ammazzati davanti a me se davvero credi che ne valga la pena.”

Rimango zitto. Sento un rivolo d’acqua ghiacciata scendermi lungo la schiena, ho un brivido lungo un’eternità.

Tiro fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca, ne prendo una. La giro tra le mani, la annuso. Camel Blue. Come ai vecchi tempi. Ne annuso una, sento quell’odore di tabacco dolce e liquoroso, la infilo tra le labbra e rimango così, con gli occhi di Beth puntati su di me come fiamme ossidriche.

Prendo un lungo respiro.

Poi senza dire niente spalanco le labbra e mentre la sigaretta vola verso la strada lancio la palla di neve con tutta la forza che ho in mezzo al niente, prendo Beth per mano e inizio a correre in mezzo a tutto quel bianco. La sento urlare dietro di me ma non mi fermo. Dopo qualche passo Beth smette di fare resistenza e comincia a muoversi veloce, appare al mio fianco, corre anche lei accanto a me e siamo rapidi, e potentissimi, distruggiamo ogni muro, voliamo trascinati dal vento e urliamo al mondo le nostre velocità. In quella corsa insensata attraversiamo la piazza grande, proseguiamo sul viale e neanche la salita riesce a fermarci, poi giriamo circondando la cattedrale e facciamo vibrare le vetrate gotiche, squarciamo la nebbia e lasciamo un turbine di foglie secche dietro a noi, arriviamo dritti davanti alle luci della galleria e ci fermiamo davanti a una vetrina addobbata con un’infinità di origami colorati. Guardo Beth, mi guarda anche lei. Sposto gli occhi sulla vetrina e mi riempio la vista.

Parlo, e dalla bocca mi esce fiato, sputo, voce, e tutto sembra avere un senso.

“Non ti pare che sia questo il motivo per cui valga davvero la pena respirare, Beth?”, indico la vetrina, gli origami, e ancora più in là, indico le nostre lacrime sospese nel vento.

Beth riprende fiato affannata per la corsa, stanca ma ancora fiera, e mostruosamente bella. Il paesaggio dietro di lei è bianco. Ma lei no. Non è bianca.

Noi due siamo diversi.

All’interno del negozio si accende una luce e il riflesso di quei mille origami ci abbaglia entrambi.

“Eccome se ne vale la pena”, dice lei, e ingoia saliva.

Rimaniamo lì ancora un po’, immobili, a piangere colori.

20 luglio 2008

Lacrimosa.

18 luglio 2008

I've been working on a cocktail.



Tun tun tun.

16 luglio 2008

Nuovo Post

Il giorno dopo è sempre tutto distante, e scivola. Cannuccia - prendi fiato - succo di pera. Per ore.
Due pesi da un chilo per formare i bicipiti. Oggi vanno su e giù a meraviglia. Braccia riposate da pochissime ore di sonno.
Testi spezzettati. Lettura difficile, da un po' di tempo ci piace. Come i fumetti, anche i fumetti sembrano più belli. Aaugh! Coff. Mumble mumble?
Così è se vi pare: la scienza non è adatta alla mattina, meglio la sera o il pomeriggio. Bufala e pachino, invece: accoppiata vincente ad ogni ora. Con un po' di saliva.
Voglio giocare ad imparare più nomi possibili. Ordine alfabetico. A. B. C. D. E. F. Arrivo a metà e sono stanco del gioco, ricordo fino ad F. Sono stanco del gioco.
Due settimane dovrebbero bastare ad esser punti da zanzare sovrumane.
Ninna nanna. Non ricordo le parole. Te la canto a bocca chiusa. Ad aprirmi la bocca ci pensi tu? Faccio un bagno sotto la doccia. Penso.
Annuso le mie mani in continuazione. Cosa annusi? Le mie mani. Perchè? Profumano. Davvero? Già.
Non l'avrebbe mai detto.
Google - immagini - love - LOVE LOVE LOVE! - http://images.google.it/imgres?imgurl=http://eomtc.com/fractals/heart%2520of%2520love.jpg&imgrefurl=http://mayak.splinder.com/archive/2004-04&h=300&w=300&sz=19&hl=it&start=6&tbnid=w5dAHtJauNvoCM:&tbnh=116&tbnw=116&prev=/images%3Fq%3Dlove%26gbv%3D2%26hl%3Dit%26sa%3DG
Squilla il telefono. Rispondo. Chi è. Io. Tu. Io.
Gli manca il mare e vuole andarci. Ma l'hamburger a pranzo non si può mangiare. Fa caldo. Fa male. Leggo un libro.
Se una notte d'inverno un viaggiatore. Asp asp, fermi tutti.
E' estate.

12 luglio 2008

...

...

Don't waste your time on me, you're already the voice inside my head.

08 luglio 2008

Lee

Mi chiamo Lee.

Ho i capelli bianchi, lunghi e lisci, mi cascano sulle spalle con precisione impossibile. Indosso una tuta aderente viola, tuta da guerriero.

Davanti a me c’è un uomo alto due metri e dieci centimetri, con un paio di pantaloni rossi e neri, il petto nudo, gli addominali scolpiti. È mezzora che tento di ucciderlo.

Si chiama Jim Kazama.

“Fai la combo!”, dice Chris, sollevando la testa dalla mia spalla.

Jim si avvicina con fare minaccioso.

“Cos’è la combo?”, chiedo, e intanto schivo un calcio a forbice saltando all’indietro.

“Premi prima croce e poi tondo e intanto fai la mezzaluna in alto verso destra”, esclama. Per lui è una cosa ovvia.

Spreco secondi preziosi a cercare il tondo. Per un attimo mi tremano le dita e perdo la concentrazione, la Playstation sguscia via dal mio controllo. Nel frattempo ricevo due cazzotti in faccia e un calcio volante.

“Così?”

Ho trovato il tondo.

“Così!”

Lee si mette in equilibrio sulle mani e inizia a girare allargando le gambe, diventa una specie di elicottero umano, con i suoi capelli bianchi a sfiorare il suolo e i suoi piedi a colpire Jim sulla faccia. Pum, pum, paah.

“Ora premi croce velocissimo”, urla Chris. È eccitato. “Più veloce dai, lo stiamo battendo!”

Premo croce alla velocità della luce. Lee inizia a dare cazzotti, prima lentamente e poi uno dopo l’altro sempre più rapidamente, finché le braccia si confondono una con l’altra e diventano un’arma unica, inesorabile, micidiale. Jim prova a difendersi, para qualche colpo, ma incassa tutti gli altri e sono abbastanza. Bastardo. Jim stramazza al suolo.

Jim muore.

“Vittoria!”, urliamo. Lo diciamo insieme, a voci sovrapposte, e mi sembra di aver vinto la battaglia più importante della mia vita.

Mi fa male il pollice sinistro, è tutto arrossato e indolenzito. Poso la Playstation sul bracciolo del divano e mi alzo con un salto fintamente pirotecnico, poi tendo i muscoli delle braccia mostrando i bicipiti a un pubblico immaginario. Faccio dei versi gutturali, mi inchino.

Guardo Chris dritto negli occhi. Lee saprebbe cosa fare. Saprebbe che non è ancora abbastanza.

“Sai una cosa Chris?”, dico.

“Cosa?”

“Ho deciso che ora giochiamo a un gioco.”

Sgrana gli occhi, fa la V con le sopracciglia. Vedo un guizzo improvviso attraversargli il volto. “Giochiamo a esprimi un desiderio”, dico.

Mi guarda perplesso e divertito, distende le labbra per lo stupore. Prima quello inferiore, poi quello superiore. Rimane così, con la bocca spalancata. Non capisce.

“E come si gioca?”, dice dopo un sacco di tempo.

“Beh, è semplice.” Avvicino una mano al suo viso e gli stringo il naso per fargli il solletico. “Funziona così. Tu adesso esprimi un desiderio, qualsiasi cosa che ti venga in mente, e me lo sussurri all’orecchio. E io faccio di tutto per esaudirlo il prima possibile.”

Chris accusa il colpo ritraendo la testa all’indietro fino a farla sbattere sullo schienale del divano. Mi guarda, e nei suoi occhi verdissimi c’è scritto: quand’è che mi dici che è tutto uno scherzo?

“Non è uno scherzo Chris”, annuisco. “Puoi chiedermi tutto quello che vuoi.”

Ci pensa un momento. Tira su col naso.

“Tutto tutto tutto?”, chiede.

“Tutto tutto tutto.”

È sconvolto.

Ora è abbastanza perfino per un guerriero.

Mentre pensa al suo desiderio Chris rimane zitto per un sacco di tempo. Sta riflettendo attentamente, ne ha uno solo e non può sprecarlo. Sa bene che fortune simili non capitano spesso. Io alzo gli occhi sull’orologio nello scaffale della libreria. Sono le dieci e mezza di sera.

Vado a lavarmi i denti, mi spruzzo un po’ di deodorante al talco e mi sistemo i capelli. Mentre esco dal bagno lancio una rapida occhiata allo specchio, alla mia immagine dall’altra parte. Questa camicia mi sta perfetta. Anche questo sorriso. Mi sta perfetto.

Mamma è seduta sul letto a guardare la tv. Passo davanti alla sua stanza e mi fermo un momento ad osservarla. Sembra troppo assorta per accorgersi di me, nemmeno si gira a guardarmi. Ha tolto il sonoro della tv, sullo schermo si vedono due uomini che litigano animatamente tra loro ed è stranissimo vedere i loro gesti scomposti senza sapere cosa si stiano dicendo. Distolgo lo sguardo e mi allontano, e in quell’istante sento la voce di mia madre.

“Stai attento”, dice. La guardo. Non mi guarda.

Faccio un passo indietro, lei continua a fissare lo schermo, fatico un po’ a rendermi conto che mi ha parlato davvero.

“Attento a cosa?”

Mamma si allenta un po’ il foulard intorno al collo, si raccoglie i capelli tra le mani e li lascia cadere sulle spalle.

“A Christopher.” Si osserva le dita con disappunto, soffia via un capello morto. Poi torna con gli occhi sulla televisione.“Io so cosa desidera.”

“È solo un bambino mamma.”

Lei socchiude gli occhi, come a concentrarsi ulteriormente su quegli uomini che vivono dentro la televisione, e che si muovono in quel modo strano.

“È vero”, dice. Inarca le labbra in un sorriso sforzato. “Ma lo sei anche tu.”

Torno in salone e mi avvicino al divano. Dal soffitto arriva il suono di una sparatoria, grida scomposte, una musica struggente. Poi il rumore di pneumatici sull’asfalto, la sirena di un’ambulanza. Per un momento alzo la testa, poi torno a fissare Chris. È la tv della vicina. Chissà se è lo stesso film che sta guardando mamma.

“Hai pensato al desiderio?”, gli dico.

Lui annuisce.

Vuole un gioco della Playstation, un dvd dei cartoni animati. No, troppo poco. Forse vuole una Playstation tutta nuova o forse uno stereo. Io alla sua età avevo uno stereo fantastico. Bastava scuoterlo un po’ e la rotella del volume si illuminava di blu.

“Allora dimmelo”, continuo.

Mi siedo di nuovo accanto a lui, raccolgo le gambe e appoggio il mento sulle ginocchia. Chris sposta lo sguardo su di me. È uno sguardo ed è anche un segreto.

Avvicino l’orecchio alle sua bocca.

“Stasera esci con David?”, sussurra piano.

Stavolta sono io a sgranare gli occhi.

“Sì.”

Chris tira fuori la lingua ed esita un po’ prima di parlare di nuovo. Con le labbra mima: tutto tutto tutto e mi sorride.

Prende fiato.

Dice: “Portami con te.”

04 luglio 2008

Il periodo dell'oscurità

Lo sai meglio di me che l’estate è il periodo dell’oscurità. È il periodo in cui muoiono gli uccelli, in cui il cielo tuona quando è sereno.
Io correvo, l’altro giorno, ed era estate. Correvo per non toccare terra troppo a lungo, correvo per dare un senso a quel fottuto mal di testa, perché avevo paura di rimanere incollato sull’asfalto, di rimanere incollato. Correvo.
Poi come al solito ho pensato a te. È stata colpa del vento. Soffiava troppo in fretta, mi ha colpito sul fianco. È stata colpa del vento se ho pensato a te e ho iniziato a cadere giù dalla strada.
Questo passaggio mi manda in bestia, quando ci ripenso. Questo fatto di cadere giù dalla strada.
La gente normale cade dall’altalena, o cade dal letto o dalla sedia. La gente molto distratta al massimo cade dalle nuvole; e se proprio deve starci di mezzo una strada, la gente normale ci cade sopra.
Ma tu mi fai cascare dalle strade, ti rendi conto di che potere hai?
Perciò quando sono tornato a casa mi sono buttato a strisciare per terra e ho provato a farlo a comando. Pensavo a te e vedevo cosa succedeva. Ho preso un sacco di polvere. Mi si è ingarbugliato il filo del telefono sulla caviglia e ho fatto un macello, è caduto portandosi appresso i soprammobili preziosissimi di mia madre.
Lei è venuta in salone a vedere cosa fosse quel casino, mi ha fissato con aria indispettita e ha chiesto.
“Sei pazzo?” Con il punto di domanda.
Io mentre raccoglievo le poche cose rimaste intatte le ho detto.
“No, stavo provando a cadere giù dal pavimento.”
Lei si è irritata ancora di più. Mi ha risposto.
“Sei pazzo.” Stavolta senza punto di domanda.
E poi è andata via, pazza mia madre, pazza e stanca.
L’estate è il periodo dell’oscurità, e ho pensato fosse colpa anche del tempo. Lo diceva il mio oroscopo. A giudicare dalla posizione di Venere la giornata riserverà grandi sorprese: orologi rotti e novità da esplorare il prima possibile, una più spiccata curiosità analitica, una sincera innocenza, un maggiore senso di meraviglia. Questa attesa non sembrava convenirmi.
Sono uscito di nuovo e sono entrato in una gioielleria. Ho scelto un ciondolo. Verde come i tuoi occhi verdi. Il tizio della gioielleria mi ha detto.
“Non si sposa con la tua pelle.”
Allora ne ho scelto un altro, verde anch’esso come i tuoi occhi verdi. Il tizio ha continuato a guardarmi.
“Nemmeno questo, scegline uno di un altro colore.”
Ma come è possibile, i tuoi occhi sono verdi e gliel’ho fatto notare, avevo una foto con me, occhi verdi, ecco, guardi qui.
Il tizio della gioielleria ha scosso la testa.
“Cambia pelle.”
Mi ha detto.
L’estate è il periodo dell’oscurità e così sono tornato a casa e ho acceso la tv per guardare i quiz.
Elegante roditore. Mustelide.
La montagna più alta degli stati uniti. Monte McKinley.
Il significato della parola nosocomio. Ospedale.
I fantasmi esistono. Sì.

03 luglio 2008

L'ho fatto di nuovo.




The broken clock is a comfort, it helps me sleep tonight
Maybe it can stop tomorrow from stealing all my time
I am here still waiting though i still have my doubts
I am damaged at best, like you've already figured out

I'm falling apart, I'm barely breathing
With a broken heart that's still beating
In the pain is there is healing
In your name I find meaning
So I'm holdin' on, I'm holdin' on, I'm holdin' on
I'm barely holdin' on to you

The broken locks were a warning you got inside my head
I tried my best to be guarded, I'm an open book instead
I still see your reflection inside of my eyes
That are looking for a purpose, they're still looking for life

I'm falling apart, I'm barely breathing
with a broken heart that's still beating
In the pain is there is healing
In your name I find meaning
So I'm holdin' on, I'm holdin' on, I'm holdin' on
I'm barely holdin' on to you

I'm handin' on another day
Just to see what you will throw my way
And I'm handing on to the words you say
You said that I will be ok

The broken lights on the freeway left me here alone
I may have lost my way now, haven't forgotten my way home

29 giugno 2008

Affronta sicura le occasioni della vita.




...

pffffff

...



BUAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAAHAHAHAHAH

21 giugno 2008

Baffi

Toph non dice una parola, è pensieroso. Scrive il suo nome sul finestrino appannato della macchina. Lo fa tenendo il pugno della mano stretto e muovendo tutto il braccio, di netto. Viene fuori una scritta tutta storta e tremolante. La P sembra una D e non c’è abbastanza spazio per la H. Ripenso a qualche mese fa, quando i suoi nervi erano malati a partire dalla spalla e non riusciva a muovere nemmeno le braccia. Sta migliorando ma voglio di più. Voglio le mani.
Voglio le dita.
“Aspetti qui?”, chiedo. “Ci metto un secondo.”
Annuisce, mugugna qualcosa. Mi chiedo se sia sicuro lasciare un tetraplegico da solo in macchina. Corro con le mani intrecciate sopra la testa, in un inutile tentativo di non bagnarmi troppo sotto alla pioggia che cade ancora, leggera ma inesorabile. Guardo indietro, Toph mi segue con gli occhi attraverso il vetro. Ad ogni passo lascio orme di fango dietro a me.
Il tipo del vivaio ha i baffi tagliati sottili e la mosca sopra al mento. In testa indossa un cappello di lana nero e un paio di scalda orecchie bianchi. È seduto a una scrivania a leggere il giornale. È ridicolo.
“Salve”, lo saluto, rimango con le mani in tasca. Fa un freddo cane. Il tipo continua a leggere e rimane in silenzio.
La stanza è piena di piante, do un’occhiata in giro. Ci sono gigli, ortensie e tulipani, ci sono dei grandi vasi con i limoni, ci sono orchidee di tutti i colori, composizioni di rose, gerbere e giacinti viola. Ci sono bouquet di margherite gialle e bianche, ci sono dei cesti di vimini pieni di ciclamini, mazzi di fiori secchi e spighe dorate, ci sono centrotavola con candele profumate, ci sono gardenie, camelie, ma soprattutto ci sono infinità di stelle di natale. Rosse, fredde e vive, sembrano tagliare la luce di netto.
“Sa che i veri fiori sono quelli gialli, all’interno”, dice il tipo. Finalmente alza gli occhi dalla pagina di giornale, indica le stelle di natale con un dito. “Le parti rosse sono soltanto normalissime foglie. ”
Mi avvicino ad una stella particolarmente grande, allungo la mano per toccarla.
“Fermo!”, mi urla all’improvviso. Mi blocco, ritraggo la mano. “Sono delicatissime. Soffrono il freddo, non vede come sanguinano?”
Quest’uomo è completamente pazzo.
“Mi scusi non lo sapevo”, sussurro spaventato.
Il tizio si accorge della mia espressione perplessa, scuote la testa con fare scocciato, chiude il giornale e si alza in piedi.
“Come posso aiutarla?”, chiede con tono secco e formale. Si toglie gli scalda orecchie e li posa sulla scrivania.
“Vede, mia madre ha deciso stamattina di volere a tutti i costi un albero di natale, e lei possiede l’unico vivaio aperto di tutta la città.”
Il tipo mi guarda per farmi capire che quell’introduzione è del tutto inutile e che ha passato la mattinata ad aiutare ritardatari come me.
“Sono rimasti soltanto quei due”, indica un angolo buio della stanza. Ci sono due alberi piccoli e piuttosto malmessi in un angolo. “Di meglio, oggi, non può pretendere.”
Mi avvicino ai due alberi. Sembrano identici, sono entrambi poco più alti di Toph, con la cima un po’ storta e non troppi rami disposti in modo asimmetrico tutto intorno.
“Quello sulla destra è transgenico”, dice il tipo, accenna un sorriso.
Rimango zitto con sguardo interrogativo.
“Non punge. Può accarezzarlo come fosse un cocker e non sentirà nessun dolore.” Fa un cenno con la testa. “Provi pure se vuole.”
Non ci credo.
Provo, passo la mano lungo un ramo e la lascio scorrere come sulla peluria di un peluche, sento un po' di solletico, niente di più.
“Incredibile”, sussurro a voce bassa.
“Vero?”, il tipo ora sorride mostrando i denti ingialliti, si sistema il cappello di lana. “Robe del genere andrebbero inventate più spesso.”
Mentre penso a una risposta da dare guardo indietro, verso la porta, seguo le mie orme fino a fuori. Sono rassicuranti.
"Vorrei l'altro", dico. "Quello che punge."
Lentamente stanno uccidendo tutti i nostri sogni.

15 giugno 2008

Radiosveglia

Dalla mia stanza si vede una ragazza al telefono, nella finestra di fronte. Piove e l’immagine di lei mi arriva filtrata, indistinta, quasi consapevole di aver attraversato un miliardo di cose prima di approdare fino a me.
La ragazza sta mangiando dei biscotti. Indossa un pigiama verde con delle stelle di vari colori disegnate sopra. Parla ininterrottamente, anche mentre mastica, e gesticola in modo brusco e sgraziato. A un certo punto mi vede, si ricompone i capelli e mi lancia un’occhiata di rimprovero. Mi squadra ancora mentre chiude la persiana.
Se guardo giù, in basso, riesco a vedere fin dove la strada curva circondando il giardinetto pubblico. In giro non c’è praticamente nessuno. Passa un signore con un ombrello e un cane al guinzaglio. Indossa un lungo cappotto in stile militare. Tenta di accendere una sigaretta ma non riesce a tenere contemporaneamente il manico dell’ombrello e l’accendino. Finisce per bagnarsi completamente, rinuncia a fumare.
Apro la finestra, un soffio di vento freddissimo mi gela il viso svegliandomi del tutto. Mi sporgo un po’ fino a sentire le gocce di pioggia arrivarmi sulla nuca, rimango qualche secondo fermo così. Davanti al portone di casa è parcheggiata la mia macchina, attraverso il vetro bagnato riconosco il mio porta-cd, la mappa stradale, un pacchetto di gomme posato sul sedile. La mia macchina mi piace da morire. Mi piace perché è minuscola, è così piccola da permettermi di infilarmi anche nelle stradine più buie per raggiungere qualsiasi posto. Mi piace perché ha il portapacchi, e perché quel portapacchi non l’ha mai usato nessuno. Mi piace perché ha un bozzo nella portiera a sinistra e mi ricorda un anno fa, quando ero ancora innamorato e goffo e sbadato, e mi fa ridere, trovo assurdo che a ricordarmi quell’amore ormai stinto sia un bozzo in una portiera. Poi la mia macchina mi piace perché è sottile, e quando sono fermo ai semafori ad ascoltare una canzone la musica passa attraverso le portiere e finisce nelle automobili degli altri, spesso riesco ad osservarli mentre muovono la testa al ritmo di ciò che sto ascoltando. Infine mi piace perché è l’unica cosa che senta per davvero mia, nel mondo. È triste quando penso che sia una macchina e non un essere umano. Ma almeno le macchine, quando ti fanno del male, rimangono in silenzio.
Ho la testa completamente bagnata, torno dentro e chiudo la finestra. Mi passo la mano nei capelli e la porto davanti al naso. Odora di pioggia e terra e aria ed è un profumo che mi fa diventare matto.
Abbasso la persiana e rimango al buio, appoggiato al muro, le mani infilate nelle tasche del pigiama. La radiosveglia segna le 08.33. Nella penombra noto un sacco di cose. La porta della camera non è chiusa bene. La luce che filtra sotto al pavimento illumina le mie scarpe rovesciate. Se muovo una mano abbastanza veloce davanti agli occhi riesco a farla sparire, rimane soltanto il braccio. C’è una macchia sopra alla finestra, sembra un elefante.
Una volta ho letto in qualche libro che gli uomini sono fatti per lo più di acqua, il resto è soltanto un’inezia. Non mi dispiace pensare di essere fatto della stessa roba di cui è fatto il mare, secondo me spiega un sacco di cose. Spiega perché ci lasciamo trascinare dalla corrente senza riuscire a frenare. Spiega perché, a volte, facciamo più male di un uragano. Spiega perché la nostra vita sembra derivare da minuscoli microrganismi che ci trascinano ognuno verso un posto diverso, incapaci di comunicare tra loro. E poi l’oceano non è il posto più adatto per una coscienza superiore. Neanche l’uomo.
Accendo la radio rimanendo al buio. Il notiziario è già iniziato da un po’. Un politico di sinistra è stato ucciso a coltellate davanti casa da un gruppo di uomini ancora non identificati. Un ragazzo di ventidue anni è morto nella notte, investito da un pirata della strada. Invenzione del giorno: il dosso virtuale contro l’alta velocità. Consigli per mangiare bene durante le feste. Partita di calcio di beneficenza.
La porta della camera si apre all’improvviso inondandomi di luce. Stringo gli occhi. La silhouette di mia madre appare lentamente nella nebbia della mia vista ancora poco abituata. Mamma non dice niente per un po’, poi fa un passo verso di me.
“Ma allora sei sveglio”, esclama. “Mi sembrava di aver sentito dei rumori.”
Annuisco. Finalmente riesco a vederle la faccia.
“Tutto ok?”, mi guarda in modo strano.
“Ok.”
È in abbigliamento casalingo con delle orribili pantofole pelose rosa. Le gocciola qualcosa dalle mani.
“Vieni a fare colazione?”, chiede.
“Ora arrivo, stavo finendo di sentire una cosa”. Indico la radiosveglia con un cenno della testa.
“Certo, scusami.”
Mamma accende la luce in camera mia, poi esce. Torna dopo pochi minuti con una ciotola piena di frutta secca. Me la passa e sorride.
“Hai sentito del ragazzino morto stanotte?”, chiedo. Voglio portare un briciolo di normalità a questa conversazione.
Lei sorride sempre di più, inizia a scuotere la testa. Fa finta di non ascoltarmi. Unisce le mani davanti al petto intrecciando le dita, le agita in alto e in basso in segno di sconforto. Poi all’improvviso mi prende la testa e mi da un bacio sulla guancia.
“Auguri, amore mio”, dice.
La guardo perplesso e poi capisco.
È natale.

14 giugno 2008

Ritorno

Nell’atrio dell’auditorium non c’è più nessuno, l’ordine, la pulizia e il silenzio permeano ogni cosa. Arrivo trafelato e mi guardo intorno nervosamente cercando l’ingresso in sala. Apro una porta, è il bagno, ne provo un’altra, è chiusa a chiave. Una signora in tailleur compare all’improvviso da una tenda rosso scuro e mi guarda preoccupata indicando di seguirla. È molto tardi, mi dice con gli occhi.
La sala è davvero grande. La platea è una lunga distesa di poltroncine rivestite di stoffa, ed è praticamente piena. Faccio appena in tempo ad individuare la carrozzina di Toph prima che si spengano le prime luci. È posizionata nel corridoio. Dalla poltrona immediatamente vicina spuntano i capelli e il foulard di mia madre.
Trovo un posto libero accanto a un signore anziano con un bastone di legno intarsiato appoggiato tra le gambe. Lo sento borbottare qualcosa a proposito del fatto che non si dovrebbe arrivare così tardi ai concerti. Sto per rispondergli a tono e ho già in mente qualche complimento ironico riguardo l’estetica del suo bastone da passeggio, ma vengo interrotto da qualcuno nelle prime file che inizia ad applaudire. Sta entrando l’orchestra.
Dietro di me c’è una coppia di signori con l’aria distinta. Il marito è un signore sulla settantina con i capelli bianchi, lucidi e tirati all’indietro. Indossa degli occhiali con la montatura dorata. La moglie ha almeno dieci anni in meno, i capelli ricci e tinti di rosso, un sorriso radioso. Ha in mano un programma, me lo faccio prestare. Suonano Shostakovich.
Le luci si spengono del tutto e un faro illumina Beth mentre si dirige verso il suo pianoforte. Ha un vestito semplice, chiaro, forse un po’ troppo corto. Si avvicina al pianoforte guardando la sala, senza fermare lo sguardo realmente su nessuno. È debole, lungo il cammino. Ma io so che appena si siederà diventerà forte.
Mio padre era un appassionato di musica classica. La sera ci portava spesso a sentirla in giro per la città. Lui diceva sempre che il momento più bello di un concerto è appena prima che inizi la musica. Diceva che c’è un istante in cui i muri delle sale da concerto spariscono, e il vento che c’è fuori riesce a entrare. Non si sa come mai ma succede sempre: le luci si spengono, i musicisti tendono i muscoli, l’attesa è estenuante, eppure il viso si rinfresca un momento con quel vento immaginario. Arriva al momento giusto, per pulire la testa dai cattivi pensieri, diceva. Mio padre diceva anche che era quel vento ad avergli fatto venire il mal di gola, che avrebbe dovuto mettersi un foulard come la mamma. Mi piace pensare che sia vero, che la storia del tumore alla lingua fosse solo un’invenzione. Mi piace pensare che sia morto di musica.
Le prime note arrivano dritte in testa, come un’ubriacatura da superalcolico. Conosco questo concerto, l’ho ascoltato troppe volte. Beth ha le mani sulle gambe mentre l’orchestra suona la sua introduzione. Aspetta il suo turno, dagli occhi le fluisce quella sua straordinaria capacità di ascoltare, quell’assurda attenzione per le piccole cose.
Mi lascio affannare da un nuovo tipo di sogno.
Il peso delle dita si sente tutto appena iniziano a muovere i tasti, la musica compie uno scatto discreto e repentino così brutale da provocarmi un grido soffocato. Il vecchio col bastone mi brucia con lo sguardo, non gli do importanza.
Il busto di Beth si muove con movimenti imprecisi e incoerenti, un momento sfiora la tastiera e il momento dopo si allontana come a sentirla bruciare. I suoni si inseguono lenti nell’adagio, ricordano le prime luci fredde dell’alba, i fazzoletti bianchi in un porto di mare, le volute di una sigaretta nel piccolo studio di uno scrittore. Come vorrei essere in grado di vedere tutto questo davvero, così da conservarlo per sempre in fondo agli occhi. Come vorrei essere privo di consapevolezze, non sapere niente, come un viaggiatore venuto da una terra in cui ci sia sempre silenzio e che per la prima volta venga spinto, qui ed ora, nella musica. Come vorrei precipitare fuori dalla mia inquietudine.
Mi agito sulla poltrona durante l’allegro, qui dentro fa più caldo del previsto. Passo la mano sulla pelle ad allontanare il maglione dal collo, soffio nella maglietta. Le note si arrampicano, adesso, e sembrano continuare a salire senza fermarsi mai. L’orchestra sposta il suo peso rincorrendo il pianoforte e ingrossando il rumore, e proprio quando la pienezza sembra ormai conseguenza necessaria e imprescindibile le luci si accendono e la musica è sostituita dal boato di un applauso potentissimo. Un’esplosione. Il concerto è finito.
Boom.
Perfino da qui riesco a notare il petto di Beth che si muove rapidamente per la fatica, il viso è coperto da qualche capello ribellatosi nel mentre dell’esecuzione. Rimane immobile qualche secondo prima di alzarsi dallo sgabello, passarsi una mano sulla testa, sorridere avvicinandosi al bordo del palcoscenico.
Si inchina qualche volta davanti al pubblico che applaude, ed è proprio come quando aveva dieci anni, scomposta e disorientata di fronte ai grandi numeri. Esce e rientra sul palco quattro volte, l’applauso è lunghissimo. La signora dai capelli rossi dietro di me urla: brava.
Dopo che si riaccendono le luci aspetto venti minuti rimanendo seduto nella mia poltrona, osservo il flusso di persone che entrano ed escono dal camerino per salutare lei o qualche componente dell’orchestra, riconosco alcuni volti ma non mi avvicino a salutare. Mamma e Toph mi fanno un cenno da lontano e vanno via. Sono rimasto l’unico nella sala quando, finalmente, attraverso la tenda rossa che mi separa da lei. C’è un piccolo corridoio buio e alcune porte. La terza sulla destra è semiaperta. Sento un profumo. Il suo.
Beth è appoggiata a una sedia di legno, sta tentando di togliersi uno stivale col tacco con dei movimenti scoordinati. Non mi vede entrare e rimango un po’ a fissarla mentre è in quella posizione strana, illuminata soltanto da un lampadario sporco e vecchio.
“Posso chiederti una cosa?”, dico.
Nel suo corpo vedo scorrere un brivido di sorpresa, mi ha riconosciuto dalla voce e non si aspettava fossi qui. Rimane a fissarsi lo stivale continuando a tirarlo via, senza alzare lo sguardo verso di me. Finalmente riesce a toglierlo e fa un sospiro di sollievo.
“Questi affari mi hanno dato fastidio per tutto il concerto, cristo santo.” Solo allora alza gli occhi e mi sorride. “Certo, chiedi pure.”
Mi avvicino fino a sentirne l’odore. È sudata. Odora di vita.
“Chi ti ha allacciato il vestito, sulla schiena?”
Beth si toglie i capelli dalla fronte, li raggruppa tutti con le mani e li lega con un elastico viola. Poi passa le dita due o tre volte sul vestito, all’altezza delle spalle, prima a destra e poi a sinistra, come a pulirlo da qualche sporcizia residua.
“La stessa persona di cui sei innamorato tu”, dice. “Quella per cui non mi parli da un mese, quella per cui è cambiato tutto quanto.”
Mi guarda tranquilla come se mi avesse appena rivelato il menù della sua colazione. Io le rispondo fissandola, allibito e sconvolto.
“Di chi parli scusami?”
Allora lei si gira lentamente su se stessa, si ferma un istante a mostrarmi la schiena. Il vestito le scorre teso fino ai fianchi. Non ci sono allacciature. Non ci sono bottoni. Si volta nuovamente verso di me.
“Parlo di qualcuno che non esiste, idiota.”
E poi spalanca gli occhi.
"Boom", sussurro.

05 giugno 2008

leaked.

The leak.
First impressions.
The best is reign of love.
It's almost perfect.
The escapist is wonderful.
I'm already lost.

30 maggio 2008

You're so hot that I melted

Ho bisogno di essere allegro.




I've been spending way too long checking my tongue in the mirror
And bending over backwards just to try to see it clearer
My breath fogged up the glass
And so I drew a new face and laughed
I guess what i'ma saying is there ain't no better reason
To rid yourself of vanity and just go with the seasons
It's what we aim to do
Our name is our virtue

There's no need to complicate
Our time is short

24 maggio 2008

Plastica

Non sono preparato al vento che mi entra nelle ossa appena apro la portiera della macchina. Fa un freddo cane e ho soltanto un maglioncino leggero. È nero con delle righe sottili viola, rosa e bianche, che si ripetono a gruppi di tre. Arriva fino alla vita e ho i fianchi scoperti. Dal collo spunta una camicia di raso blu notte. Così conciato potrei entrare in qualsiasi club di Las Vegas.
“Sai, ti vedo proprio cambiato, sotto un sacco di aspetti”, dice Beth.
Evito di guardarla. So perfettamente di cosa vorrebbe parlare. La brezza gelata continua ad arrivarmi addosso, come se fosse sparata da un enorme ventilatore universale.
“Hai presente la teoria del caos?”, chiedo.
“Beh?”
Mi chino ad allacciare la scarpa sinistra.
“Quella per cui se una coccinella vola in Nicaragua e si posa su una scimmia, allora la scimmia si gratta e fa scappare una pulce che va da un’altra scimmia che si lascia scappare un pesce nel fiume, e alla fine uno squalo divora un bambino che altrimenti sarebbe diventato il prossimo presidente degli Stati Uniti?”
Beth mi lancia un’occhiata di disprezzo.
“Ci sono coccinelle, in Nicaragua?”
“Cretina dico sul serio. È la teoria per cui eventi apparentemente simili possono evolvere in modi completamente diversi e imprevedibili.”
“Capisco.”
Non capisce.
“Sto soltanto studiando la mia evoluzione. Non sono cambiato.”
I lacci non vogliono rimanere al loro posto e continuano a penzolare ai lati della scarpa. Li lascio lì, a strusciare per terra come vermi.
“E cosa hai scoperto, sentiamo, studiando la tua evoluzione?”. Beth pronuncia queste ultime parole imitando la mia voce, attribuendole però un timbro epico e distinto che io avevo accuratamente evitato di usare.
“Ho scoperto di essere bravo ad allontanare le cose da me.”
Dalla spiaggia, in lontananza, si sente una versione remixata di Toxic. Camminiamo sul marciapiede buio, attenti ad evitare le buche e le gomme da masticare buttate per terra. Inizio a canticchiare a voce bassissima, Beth mi segue subito e fischietta la base. Senza scambiarci più neanche una parola ci muoviamo verso la direzione da cui proviene la musica. Britney Spears è la nostra guida.
Adam non sembra affatto contento di vederci arrivare alla sua festa. Non sembra nemmeno scocciato. Semplicemente, prende atto del nostro arrivo.
“Benvenuti!”, esclama, con un sorriso da manifesto elettorale.
Lo abbraccio, ha un profumo dolcissimo, sa di qualcosa di maledettamente buono. Annuso ancora e capisco. Pesca sciroppata.
Quest’uomo sa di pesca sciroppata.
Do un occhiata in giro, sono già tutti lì, saranno trenta persone. Sulla spiaggia c’è un lungo tavolo pieno di bottiglie mezze piene e di pacchi aperti di ogni genere di snack. Due casse alte quanto un bambino sparano musica a palla, collegate a un filo elettrico nero che si inoltra nella notte, chissà dove, verso la strada. Due faretti da discoteca, uno verde e uno rosso, sono l’unica fonte di illuminazione della festa.
La serata trascorre così: io e Beth camminiamo vicini da una parte all’altra del tavolino, irrequieti e nevrotici come atleti il giorno prima di una gara. Non c’è niente da fare, a parte ascoltare gli aneddoti stravaganti raccontati dagli altri invitati per intrattenere prima di tutto loro stessi e poi noi. Cerco un modo costruttivo per impiegare il tempo. Bevo.
“Tempo fa alla tv avevo visto un documentario sugli effetti dell’alcool nel cervello”, dico a Beth. Sono le prime parole che ci scambiamo da due ore. Mi risponde con un’occhiata strana, io bevo in fretta un vodka-lemon, non mi lascio intimorire e vado avanti. “Le molecole di alcool ti fanno aumentare la dopamina nel sangue, che è il motivo per cui sballi e non ci capisci un cazzo.”
Mi faccio un altro vodka-lemon. Questa volta metto quasi solo vodka.
Dico: “Mi sembra che il termine tecnico sia disinibizione comportamentale. Sarebbe a dire che fai figure di merda in continuazione.” Beth continua a ignorarmi, faccio finta di niente.
Comincio a sentire caldo e sento le braccia formicolare un po’. Forse dovrei bere qualcosa. In quel mare di alcolici individuo il gin, è così trasparente, non può mica farmi male. Non è come la coca-cola, piena di coloranti. Prendo tutta la bottiglia.
“E?”, dice finalmente Beth.
Giro lo sguardo sulla spiaggia, fisso ognuno degli ospiti dritto negli occhi. Compreso me. Tecnicamente sarebbe impossibile, ma non mi lascio impressionare. In questo momento ho altro a cui pensare.
“E cosa?”, fisso anche lei.
Me la ricordavo più magra. Sembra grassa. E ha le tette enormi.
“Non hai altro da dirmi?”
Vorrei dirle di sì, credo di sì. Vorrei dirle: sei una brutta stronza. Non capisci un cazzo. Io sto male e tu non capisci un cazzo. Per di più sei obesa e hai le tette enormi. Vorrei dirle tutto questo e invece mi allontano senza nemmeno risponderle. La bottiglia che stringo nella mano destra diventa sempre più leggera.
Trovo qualcuno con cui parlare. Un tipo che fa l’editor di musica classica in una casa discografica. Un certo Manolo. Nome bizzarro, tant’è che quando si presenta scoppio a ridere. Provo una certa soddisfazione nel mostrare la mia cultura immensa, ma poi la pietà prende il sopravvento e lascio Manolo al suo triste destino. È tardi. Devo andare via.
Prendo le mie cose, che non ho. Non prendo niente. “Andiamo”, dico a Beth.
“Dove?”
“A casa.”
“Ma sei pazzo?”, mi guarda come se fossi pazzo. “Rimaniamo a dormire qui, imbecille.”
Non riesce davvero a capire. Meravigliosa idiozia. Ora basta, le sto dando fin troppe possibilità.
“Io vado.”
“Dove pensi di andare in questo stato? Sei ubriachissimo.”
“Sto bene.”
“Fai come ti pare.”
Ispiro lentamente. Vorrei afferrarla e sbatterla sulla spiaggia e sotterrarla con la sabbia fino a lasciarle scoperto soltanto un orecchio per urlarci dentro certo che faccio come mi pare troia che non sei altro. Invece prendo un bicchiere, lo riempio di birra, lo bevo senza smettere mai. Finché non rimane che plastica.