01 maggio 2008

Rischiare la pelle

Mi guardo allo specchio, sono talmente pallido che sembro un cadavere. Non vedo la luce del sole da decisamente troppo tempo. Ieri ho dato un esame, un mese di studio andato in fumo per colpa di un’assistente che ha sfogato con sistematica crudeltà le sue ansie su di me. Una tipa troppo alta per essere una donna, dai tratti somatici duri e disarmonici, i capelli lunghi e atavicamente sporchi. I seni appesi e liberi le ricadevano sul petto, brevi e adeguati come punti esclamativi. Mi ha detto con un tono di voce virile che uso termini inappropriati e per questo mi ha messo 25. Brutta troia. Il lesbismo represso è pericoloso per la società e va estirpato alla base con tutta la violenza possibile.
Mia madre è partita con Topher e sono solo in casa da una settimana. Non ho avuto tempo di fare la spesa. Il frigo è desolante: una zucchina, una carota, un barattolo aperto di maionese scaduta da tempo, un pezzo di formaggio e due pomodori. Ho una fame pazzesca. Butto la maionese, accendo la tv e mentre guardo i Griffin mi preparo un piatto con tutto il resto. Taglio la carota con la grattugia fino a ridurla in striscette sottili, alla julienne come direbbe un vero Chef. Soffriggo la zucchina insieme ai pomodori. Unisco tutto insieme e il risultato è delizioso. Dovrei aprire un ristorante alternativo. Un ristorante in cui si usano soltanto gli avanzi. Diventerebbe famoso e rinomato e guadagnerei un sacco di soldi. Ho voglia di uscire, aspetto la pubblicità e prendo il telefono.
“Pronto?”, mi risponde dopo pochi squilli.
“Ei Beth.”
“Ma allora sei vivo.”
“Che fai?”
“Studio.”
“Cosa?”
“Bartok. Per l’esame.”
Io odiavo Bartok. Quando dovevo studiarlo mi inventavo qualche scusa e arrivavo a lezione impreparato. Il maestro si arrabbiava sempre con me. Una volta mi aveva addirittura fatto piangere davanti a tutti. Una vergogna terribile. Beth mi aveva consolato per un’ora fuori dalla classe. Mi aveva detto di non ascoltare nessuno e che ero bravo quanto lei. Io sapevo che non era vero perché Bartok le veniva alla perfezione.
“Pensavo di andare al mare.”
“Quando?”
“Adesso.”
“Sei pazzo.” C’è un lungo silenzio. “Non posso.”
“Sì che puoi. Ti vengo a prendere.”
“Ma non posso.”
“Finisco di vedere i Griffin e arrivo.”
Mia madre nasconde tutto. Per lei mettere in ordine significa inserire qualsiasi cosa in delle buste di plastica e infilarle nei posti più assurdi. La nostra casa è così ordinata che sembra uscita da un catalogo di mobili. O da una pubblicità televisiva. Sembra una di quelle case abitate da famiglie felici in cui la moglie sveglia il marito portandogli il caffè a letto, poi vanno insieme a fare colazione e mangiano i cereali di chissà che marca. Meravigliandosi per quante poche calorie contengano. Niente di più lontano da quello accade qui dentro. Non ci sono cereali. Non siamo più nemmeno una famiglia. Non tutta intera, almeno.
Il risultato della mania di mia madre per l’ordine e la pulizia è che non riesco mai a trovare niente quando mi serve. Ogni cosa è nel posto giusto, e ciò che non ha un posto semplicemente non si vede. È davvero stressante. Le mando un SMS: Dove sono i costumi?.
Mentre aspetto che mi risponda faccio una doccia. È finito il bagnoschiuma e devo lavarmi con lo shampoo. Odio lavarmi con lo shampoo. Mi fa sentire ancora più sporco di prima: è come avere addosso la pelle di qualcun altro. Mi asciugo i capelli e non sento la suoneria squillare, mi accorgo del messaggio soltanto quando ho finito. Prendo il cellulare con le mani ancora bagnate. Mi ha scritto: Nell’armadio in camera mia. In alto. In fondo.

Il sole di Giugno è terribile. In genere amo il caldo, è strano che mi dia così fastidio. È che me lo aspettavo più dolce, meno avido. Invece la luce scava sulla mia faccia come un cercatore d’oro.
“Sei proprio negato”, mi dice Beth ridendo.
Non è vero.
“Guido benissimo”, le rispondo. “Sono soltanto molto prudente.”
“Secondo me sei negato.”
“Vorrei ricordarti che l’ultima volta che hai guidato tu abbiamo rischiato la pelle.”
“Beh ero molto tesa”, ride ancora. “E poi è successo più di un mese fa e siamo entrambi ancora vivi.”
È già passato così tanto tempo. Dal saggio. L’esame mi ha assorbito completamente e non mi sono reso conto dei giorni che scorrevano uno dopo l’altro dietro di me. Ripenso all’assistente stronza e al mese che ho buttato per colpa sua. Mi viene in mente l’immagine di lei che si guarda allo specchio e muore uccisa dalla sua stessa bruttezza.
“Sei felice?”
“Di essere qui?”, mi fissa e il suo sguardo mi brucia anche se ho gli occhi puntati sulla strada. “A quanto pare non avevo molta scelta.”
“Rispondi e basta, sei felice?”
“Non lo so.” Mi basta.
Non c’è nessuno in giro. Sono le due del pomeriggio di un mercoledì qualunque ed è come se fossi il proprietario del mondo. Come se tutti fossero svaniti nel nulla in un istante per andare in un altro posto. Immagino le case vuote, il cibo lasciato a bruciare sui fornelli, i fax muti e senza vita negli uffici. Siamo rimasti soltanto io e Beth. Padroni della terra. È una sensazione inebriante.
“Sto scrivendo un libro, sai?”
“Tu?”
“Sì”, quando lo dico mi gira la testa. “Una specie di romanzo.”
“Wow”, mi dice. “E di che parla?”. Striscia sul sedile fino a toccare con le ginocchia sul cruscotto.
“Top secret.”
“Dai, a me puoi dirlo.”
“Se te lo dico poi perdo la mia unica lettrice.”
“Guarda che non lo comprerei comunque, un libro scritto da te.”
Inserisco l’autoradio e la musica riempie l’abitacolo in un secondo. Non conosco questa canzone. Non la conosce nemmeno Beth però fa finta di cantarla. Ha il cellulare in mano e lo usa come microfono. Storpia tutte le parole e urla come una pazza, il risultato è divertentissimo. Mi fa male la pancia da quanto sto ridendo.

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